[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta di casa a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]
24 gennaio 2014 – Era il 2010 quando ho messo per la prima volta ho messo piede in una favela. Per amore dei dettagli era il 22 luglio e la favela era il Morro dos Cabritos.
Non sapevo nulla di favelas, comprensibilmente. Del resto non sapevo nulla del Brasile, nulla di Rio, nulla di nulla. Ero lì da appena due settimane e l’idea di avventurarmi in quell’ammasso di baracche di mattoni rossi che fino a quel momento avevo visto solo in foto o da lontano mi spaventava a morte.
Quel poco che avevo sentito sulle favelas non era affatto rassicurante. Da qualche parte nel profondo della mia mente mi aspettavo uno scenario da Tropa de Elite, degno delle scene più sanguinose di Cidade de Deus. Ma mi sbagliavo.
Era il 22 luglio e il Morro dos Cabritos era una favela pacificata già da sei mesi.
Qui è necessaria una piccola digressione. Nel dicembre del 2008 il Governo dello Stato di Rio de Janeiro ha inaugurato il progetto delle Unidades de Polícia Pacificadora (UPP), truppe specializzate nella tecnica della polizia comunitaria il cui compito principale è strappare i territori delle favelas dal controllo dei gruppi criminali, cercare di arginare il fenomeno del traffico di droga e reintegrare tali territori con la città formale.
Fin da subito mi erano evidenti alcuni problemi fondamentali che avevo annotato con cura su di un quaderno nel quale scrivevo le mie impressioni.
Innanzitutto l’invasione del territorio da parte delle forze armate è annunciata con un certo preavviso secondo la tattica della “guerra avvisata”, il che in teoria dovrebbe servire a permettere ai criminali di costituirsi, in pratica lascia loro il tempo di scappare in altre aree. Dall’inizio della pacificazione infatti zone come la Baixada Fluminense sono diventate invivibili a causa degli altissimi livelli di violenza.
In secondo luogo le favelas finora pacificate sono quelle posizionate nei punti considerati strategici per i grandi eventi che invaderanno Rio nei prossimi mesi (Mondiali e Olimpiadi), come quelle nelle prossimità delle spiagge, degli stadi e delle strade a grande percorrenza. Troverei indubbiamente innumerevoli sostenitori della causa pronti a smentire questa mia idea (che non è solo mia, capiamoci, ma appartiene a tutti coloro che si pongono criticamente rispetto al fenomeno UPP) e io stessa sarei pronta a fare marcia indietro e lo farò quando vedrò pacificate anche tutte le favelas di Bangu, o Madureira o Santa Cruz. Per ora comunque i fatti avvalorano la mia tesi: ancora una volta le politiche che hanno per oggetto la favela non sono calibrate sugli interessi della stessa, ma piuttosto su altri interessi più grandi. Stessa storia, stesso posto, stesso bar.
Il terzo punto è secondo me cruciale e si riassume in una domanda: siamo sicuri che, dati tutti i casi di corruzione e di quella “cultura della polizia” che vede i negri e i favelados come persone le cui vita non vale nulla, togliere le favelas dalle mani dei trafficanti per metterle nelle mani della polizia sia una buona idea? Insomma stiamo parlando di una corporazione militare che, per la stragrande maggioranza, crede che “bandido bom è bandido morto” e trova in questo l’appoggio della società borghese e della classe media carioca che, chiusa nelle prigioni dorate dei lussuosi appartamenti a Copacabana o Botafogo, pensa solo ai fatti suoi e al proprio benessere. E se al fine di tale pace e benessere qualche favelado va sacrificato poco male, tanto ce ne sono fin troppi.
Allora non sapevo che solo qualche anno dopo avrei scritto una tesi di laurea di 200 pagine sull’argomento. Allora capivo solo che alcune cose non tornavano. Allora mi ero semplicemente stupita che la vita in una favela potesse essere così piacevole e pacifica.
Il 14 gennaio 2014, l’UPP Tabajaras/Cabritos ha compiuto 4 anni; è stata la quinta ad essere inaugurata a Rio. Dopo ne sono arrivate molte altre. Oggi il numero totale delle favelas pacificate supera la trentina, ma non per questo possiamo tirare un sospiro di sollievo.
È evidente che se l’obiettivo principale era arginare il traffico di droga il fallimento è stato totale, del resto come recita un famoso funk legato all’organizzazione criminale chiamata Comando Vermelho “se tem gente pra comprar vai ter gente pra vender”. Oggi si parla piuttosto di evitare che tali gruppi esercitino un potere violento sui territori, potere che deriva dalla disponibilità di armi da fuoco. Oggi ci accontentiamo di sapere che se sono rimasti trafficanti nelle favelas essi non sono più armati fino ai denti ed accettiamo il fatto evidente che controllare la compravendita di droga è impossibile. Questo tipo di controllo, comunque, ha portato ad un drastico calo nel numero di omicidi, la favela non vive più in quel clima di guerra nel quale viveva una volta, la gente circola per strada senza paura di essere uccisa da una pallottola vagante, le madri non hanno più il terrore di lasciare uscire di casa un figlio e veder tornare un cadavere crivellato. Scusate se è poco.
Da questo punto di vista tutti hanno beneficiato della pacificazione, sia coloro che vivono nella favela sia coloro che vivono fuori. Del resto a nessuno piace vivere in una città che vive in un clima costante di guerra sommersa, anche se questa guerra viene combattuta a parecchi isolati di distanza da casa nostra.
Ma oggi tutto questo non basta più. Va da sé che per vivere davvero in pace non basta che non ci siano più sparatorie. Ci vogliono servizi, ci vogliono scuole, ci vogliono ospedali, tutte le case devono avere l’accesso all’acqua corrente, alla corrente elettrica e ad un sistema fognario adeguato a degli standard sanitari degni di esseri umani. Per questo ci vuole tempo e pazienza ma ormai sono passati cinque anni dall’inaugurazione della prima UPP e i favelados di pazienza non ne hanno più.
Vogliono quello che gli spetta come cittadini e lo vogliono subito. Purtroppo non è così facile come sembra.
Come afferma il Secretário da Segurança Pública Mariano Beltrame in un’intervista rilasciata al giornale Globo alla fine del 2013 perché tutto questo avvenga bisogna cambiare il volto della favela, bisogna che “alcune famiglie povere cambino indirizzo per permettere che si facciano i lavori”.
In parole povere se vogliamo mettere le mani nelle favelas, vogliamo costruire condotti fognari, vogliamo ampliare il sistema idrico ed elettrico, vogliamo che l’aria circoli tra le case, vogliamo che le case non siano più baracche, vogliamo che ci siano parchi giochi per i bambini e vogliamo che ci siano strade larghe perché anche gli autobus ci passino è evidente che la favela deve cambiare drasticamente aspetto e che per farlo bisogna che qualcuno sacrifichi il suo domicilio.
Ma le cosiddette rimozioni sono un argomento tabù per l’agenda politica carioca. Chi non l’ha vissuta l’ha certo studiata l’epoca delle rimozioni che, negli anni Sessanta e Settanta hanno raso al suolo centinaia di favelas e spedito i loro abitanti verso i limiti estremi della città. L’argomento delle rimozioni è stato ideologizzato nel tempo e oggi è un tema scottante. Certo, come in ogni situazione ci sono quelli che si attaccano a ogni minima cosa per fare casino, per il puro gusto di dare contro ai pubblici poteri, ma c’è anche chi, più ragionevolmente, chiede che questo tema sia discusso con la popolazione, che non si abbattano case tanto per, che i progetti siano efficaci.
Per ora tutto tace. La maggior parte dei conflitti che hanno come oggetto l’espropriazione dei terreni sono bloccati dal sistema giudiziario e per ora non si è arrivati da nessuna parte.
Se è comprensibile che i favelados non mollino l’osso facilmente e non vogliano essere cacciati via dalle loro case e spediti, come si direbbe con un espressione portoghese poco fine, “là na casa do caralho” dall’altro lato è anche vero che se ognuno si chiude nei suoi castelli (o meglio, baracche) ideologici non si arriva da nessuna parte.
Capisco perfettamente il fatto che i favelados non si fidino delle promesse del Governo; del resto un secolo di abbandono e menefreghismo non si dimenticano in un attimo una manciata di mesi. Per amore dell’onestà va però detto che la speranza che i pubblici poteri facciano miracoli a costo zero è abbastanza infantile. La democrazia è l’arte del compromesso, questo ce lo dobbiamo ficcare bene in testa se vogliamo davvero cambiare le cose. Pretendere a gran voce senza cedere su nessun punto in nome di angherie subite nel passato non risolve le cose e non ha nulla a che vedere con la sete di giustizia. A me sembra più un intestardirsi vuoto e controproducente.
Le conclusioni sembrano da manuale di Storia delle Relazioni Internazionali: ci sono paci che costano di più e paci che costano di meno, qualcuno perde e qualcuno vince, qualcuno sacrifica di più e qualcuno di meno. Non siamo qui per dire a chi tocca mollare prima questa volta. Quello che è certo è che se si vuole pace bisogna innanzitutto trovare un compromesso.