Vivere da rifugiati e richiedenti asilo a Brescia – terza puntata
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testo di Christian Elia, foto di Livio Senigalliesi
REPORTAGE REALIZZATO GRAZIE AD AMBASCIATA DELLA DEMOCRAZIA LOCALE A ZAVIDOVICI
WWW.LDA-ZAVIDOVICI.ORG
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“Non sarà che lei è solo una vittima
che vende il suo trauma?
Mi ha chiesto una biondina di Harvard
Il cui cervello è valutato mezzo milione.
In inglese non lo sapevo dire.
Si rende conto di avere tutte le ragioni?
Nove morti, il sangue che esce dalla membrana del timpano,
quel dimenarsi tra i proiettili.
Tutto sta nella parola trauma.
E questo, si, non sapevo dire in inglese,
ho paura,
è l’unica cosa che vale tra quelle che ho”.
tratto da Trauma Market, di Adisa Basic
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Gli attori sociali: Comune e sindacato
4 maggio 2014 – Assieme alle realtà produttive, il nodo chiave di questo lavoro sul territorio è quello della partecipazione degli enti locali. Il Settore Servizi Sociali e Politiche per la Famiglia del Comune di Brescia è affidato alla dottoressa Maria Rosaria Marrese, con le collaboratrici Daniela Consiglio e Ilaria Saurgnani. I rifugiati fanno capo a questa struttura. Lo Sportello Richiedenti Asilo del Comune è strutturato in due servizi: lo sportello informativo di via Saffi e quello di Piazzale Repubblica. Il 29 gennaio 2014, il ministero dell’Interno ha accolto la richiesta del Comune di Brescia di accesso al Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo.
“Hanno approvato il progetto ‘Brescia, articolo 2’, non conosciamo ancora l’importo, redatto con Adl, K-Pax e la cooperativa Tempo Libero che gestisce via Saffi e Psicologi nel Mondo, un’organizzazione composta da volontari, che gratuitamente offrono il loro supporto per i richiedenti asilo e i rifugiati”, spiega la dottoressa Marrese.
“La problematica principale è quella del coordinamento con le altre istituzioni. A questo proposito con le visite mediche gratuite, abbiamo attivato una collaborazione con le strutture sanitarie locali, Spedali Civili, per accertamenti legali in caso di denuncia di torture, in modo da documentarle. Nel triennio del progetto sarà importante la collaborazione con le Asl e la collaborazione con l’Azienda Ospedaliera per il dipartimento di Salute Mentale, per le situazioni di criticità, ma ci stiamo lavorando. Brescia torna nella rete Sprar, con trenta posti ordinari, che possono arrivare fino a 40 in emergenza. Per un totale di 100 posti locali. Non facciamo accoglienza, lo Sprar ci permetterà di farlo, con venti segnalazioni dalla rete nazionale e dieci proposti da noi”.
“Abbiamo lavorato bene con la prefettura, per Ena, aprendo una collaborazione molto positiva. I problemi ci sono, ma almeno c’è un luogo dove affrontarli con il terzo settore e tutti gli altri attori. Ci volevano più strutture, non c’erano, si è dovuti ricorrere al privato. Questa amministrazione ha deciso di cambiare le cose rispetto alla precedente, riattivando lo Sprar, anche se lo sportello di via Saffi è stato mantenuto attivo. Considerato l’impatto che questi numeri hanno su un territorio come Brescia, occorrerebbe un coinvolgimento diverso, maggiore, di tutti i comuni della provincia. Non sono sufficienti questi posti, al netto di una capacità di risposta, serve maggiore volontà del territorio. Il momento è difficile, anche per tante famiglie italiane. Alle difficoltà enormi delle istituzioni a dare risposte concrete a tutti in questa crisi sistemica, si aggiunge anche questa problematica”.
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Per la dottoressa Consiglio “i comuni che ci sono nello Sprar sono piccoli, a loro va riconosciuta la volontà di darsi da fare. Mi interessa, in questo mondo, l’autodeterminazione delle persone. Ena, nel 2011, non l’ho seguita, ma anche con gli ultimi tragici sbarchi mi pare necessario considerare cosa vogliono davvero fare queste persone. L’aspetto europeo, Dublino II, va ripensato. Anche se come numeri l’Italia non è ai primi posti in Europa come accoglienza: i motivi sono anche storici, ma a noi crea difficoltà l’immigrazione massiccia alla quale l’Italia non era abituata. Anche se sono passati venti anni. Non può essere più sorpresa, non può essere sempre emergenza. E anche se ne accogliamo pochi, non possiamo fermare le persone che vorrebbero andare altrove”.
Concorda anche al dottoressa Saurgnani: “Questo sistema di Dublino II vincola troppo le persone. Sono qui, ma sono irregolari altrove, dove magari lavorano in nero, di nascosto. La precedente amministrazione si era tenuta fuori da Ena, l’esperienza positiva è quella di Breno e dell’accoglienza diffusa. Brescia e provincia sono 201 comuni, senza arrivare a imporlo, se partecipassero più realtà si potrebbero fare progetti, che si possono seguire bene, piccoli progetti, con il numero giusto di operatori. Per fare un vero percorso di autonomia. Concentrare masse, anche in zone come Brescia, con la sua vocazione industriale, non funziona. Noi dovremo trovare casa e lavoro per novanta persone. E’ dura. A noi chiedono di indirizzare una persona verso l’autonomia, ma quando le persone sono all’interno dei progetti, come visto nel 2004 – 2008, le persone chiedono casa e lavoro. Con numeri elevati è difficile dare una risposta a tutti. Si lavora sulla conoscenza della lingua, sulla conoscenza territoriale, sul supporto legale, ma dopo non sarà facile: la crisi economica, la normativa europea che li blocca qui, anche dopo aver acquisito competenze che dovrebbero essere liberi di spendere dove vogliono e dove trovano lavoro. Piccoli progetti diffusi almeno aiutano”.
Secondo la dottoressa Consiglio “bisogna lavorare sulla consapevolezza dei cittadini, spiegando loro che queste persone sono portatrici di diritti, in fuga da guerre e persecuzioni, non in cerca di un vantaggio economico. Esistono trattati internazionali, che sanciscono dei diritti, e l’Italia li ha firmati. Ci vorrebbe molta più informazione su questo, non viene colta la differenza, non viene sentita davvero. Bisogna lavorare alla sensibilizzazione”.
Lo conferma la dottoressa Saurgnani: “Questa è la sfida del Comune per i prossimi tre anni. Questo progetto permette a Brescia di rimettersi in gioco, informando la cittadinanza. C’è tanta ignoranza sul tema, ma non necessariamente cattiveria. Una delle caratteristiche di questa amministrazione vuole essere il coinvolgimento dei cittadini, per far capire chi sono davvero i beneficiari di questo progetto. Riflettendo magari sui centri governativi, che prevedono 60 euro giorno per persona, mentre per lo Sprar la media è di 35 euro, con servizi decisamente migliori. Con assistenza sanitaria e legale, corsi di lingua e formazione professionale. C’è un abisso negli standard di accoglienza, con un notevole risparmio per le casse dello Stato. Parte delle risorse verranno investite in informazione, ripartendo dal singolo condominio, dal quartiere, con eventi e incontri pubblici con tutta la cittadinanza. Rendendo chiaro a tutti che il disagio nel quale si abbandonano in alcuni casi queste persone premono sui servizi sociali già saturi”.
Resta da capire quanto Brescia, con il suo ceto imprenditoriale, sarà poi in gradi di dare una risposta alla fine di questi percorsi di accoglienza e formazione. La Cgil di Brescia, lavora molto su questo aspetto, con uno sportello dedicato, gestito da Clemente Elia. Che non nasconde le difficoltà del territorio.
“Tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi. La crisi colpisce duro, restano in piedi le grandi attività produttive che hanno saputo tenere il passo del mercato, in particolare quello estero. Brescia ha lavorato più sulla quantità che sulla qualità, e la crisi la sente molto. Anche perché l’emergenza ambientale, penso alla Caffaro o allaA4, non aiuta la ripresa e temo che la situazione potrebbe peggiorare ancora. Tante realtà produttive come la Val Trompia o il distretto di Lumezzane, che assorbivano tantissima manodopera immigrata, perché reggevano la concorrenza comprimendo il costo del lavoro, sono in crisi. Anche perché qui è avvenuta una delocalizzazione localizzata. Non porto via l’azienda dal territorio, ma pago quanto pagherei in un altro paese. Questo lo pagano, oggi, i migranti e di riflesso i rifugiati. Perché il lavoro legittimava la loro presenza, oggi questo si complica. Il patto sociale reggeva, almeno dalle sei di mattina alle cinque della sera. Crollando l’elemento di tenuta, per quanto in sudditanza, verso lavori ormai indesiderati, la situazione si complica. Qui ci occupiamo di discriminazioni e immigrati, oltre che di rifugiati. Ci hanno definito il sindacato dei clandestini. Che succederà domani? Francamente non lo so”.
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“Rispetto ai rifugiati abbiamo attivato un ufficio ad hoc nel 1998, crisi in Kosovo, due ragazzini di 18 anni in fuga. Mancava un quadro normativo e nasce lo sportello. Il 1998 è i tempo della Turco-Napolitano, c’era un disegno sul diritto d’asilo, mai andato in porto. Restava la Legge Martelli e i trattati internazionali. L’immigrazione economica e quella politica viveva una stagione di chiusura, in Italia e in Europa. Eravamo consapevoli che l’Italia sarebbe diventata terra d’asilo”.
“Questo è uno sportello aperto a tutti, collaborando con le realtà che lavoravano sul territorio, andando anche a Montecampione nel 2011, per capire cosa stava succedendo. Ci siamo messi subito in gioco. E il sindaco dell’epoca ci accusò di occuparci di clandestini stranieri e non dei lavoratori italiani, mentre noi chiedevamo solo che Brescia facesse la sua parte. All’inizio pensavano che in due-tre mesi venissero tutti rimpatriati, stile Albania 1997. Non è andata così, molti sono andati nell’Europa del Nord, ma tanti altri sono tornati, tanti hanno avuto problemi. Gli ultimi mesi, con l’avvicinarsi delle scadenze dei permessi, ha causato molti ritorni per i rinnovi. Manca una progettualità, ma le borse lavoro sono uno strumento interessante. I tirocini, alcune volte, portano a un contratto di lavoro, altre no, e vanno seguite con cura. Perché il confine tra il tirocinio reale, in cui impari un mestiere, e il lavoro senza contributi pagato da un altro, è molto labile. Ora è dura, questo rischio è ancora più forte. Una persona, per 400-500 euro al mese, che lavora come gli altri che prendono di più, può generare problemi. Altre iniziative invece sono molto interessanti, ma un po’ sporadiche. E vedo che funzionano quelle dove gli operatori conoscono bene il territorio. La prima responsabilità è e resta delle istituzioni, che devono fare la regia, coinvolgendo poi il privato sociale e altri attori, in delega, in accordo. Serve anche, però, una mano del ceto imprenditoriale. In un rapporto di dieci anni fa, gli imprenditori avevano previsto la necessità di ‘lavoratori freschi’, di 20-25 anni, ma senza mai pensare al prima e al dopo. Le realtà sociali sul territorio non hanno mai trovato un interlocutore tra le associazioni degli imprenditori. Le loro organizzazioni sono state alla finestra e loro sono ancora”.
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Raccontare il presente
Esperienze positive, tentativi, in mezzo a mille difficoltà. Un’antenna chiave sul territorio di Brescia è Radio Onda d’Urto, storica emittente indipendente e legata alla narrazione dei temi sociali. Il direttore, Umberto Gobbi, prova a tracciare un bilancio.
“In una città come Brescia, che conosce una grande presenza di immigrati, non c’è una tradizione di grandi arrivi di rifugiati. C’è stata l’Ena, nel 2011, ma dal punto di visto delle mobilitazioni non ci sono stati grandi momenti di vertenzialità, o di iniziativa, a differenza invece delle mobilitazioni per sanatoria e permessi di soggiorno, con Brescia spesso capofila della lotta, dall’inizio degli anni Duemila, fino alla gru, contro la Bossi-Fini e altro. Non abbiamo mai avuto iniziative specifiche per i rifugiati. Solo in questa fase finale abbiamo raccolto il retaggio irrisolto dell’Ena, una volta che con la buona uscita dei 500 euro molti son tornati in strada, se non son riusciti ad andare a nord, in altri paesi europei. C’è stata questa difficoltà nel far capire che i rifugiati non sono i parassiti che si prendono i soldi, perché questo sentivi in quei giorni, messaggio veicolato ad arte dalla destra. Per i rifugiati farsi accettare è molto più duro rispetto a chi lavora in fabbrica, perché loro erano ritenuti proprio parassiti. E’ stato difficile, a livello informativo e culturale, contrastare questo pregiudizio. All’epoca c’era una amministrazione di destra e hanno fatto di tutto per non farli arrivare in città, ma poi negli alberghi sono arrivati, il comune dell’epoca non ha partecipato all’accoglienza diffusa, per far passare il messaggio falso del rifiuto, visto che poi invece sono arrivati. Indubbiamente, rispetto ad altre città, non ha suscitato la stessa mobilitazione sul tema Ena. Sono stati anche isolati. Noi stessi, come radio, eravamo in difficoltà. Erano in strutture di montagna, lontani da tutto, con grandi difficoltà linguistiche”.
“In altri casi, penso alla gru, siamo riusciti a creare un immaginario, compattando una comunità. In quel caso no. C’era una volontà politica di nascondere queste persone. Si è trovato il modo di porre un cordone sanitario attorno a loro. Il progetto di accoglienza diffusa e l’esperimento d’inserimento lavorativo sono strumenti di valore e possono indicare una strada, anche se non sono stati in grado di essere una risposta per tutti. Qualcuno ha avuto possibilità negate ad altri, non credo solo per l’impegno dei singoli, come sono anche convinto che manchino risorse per tutti. Resta il tavolo in Prefettura, ma resta l’idea che in certi frangenti sarebbe stato utile non contenere una protesta che esisteva, con momenti di ammutinamento tra i rifugiati, che si è tentato subito di tranquillizzare. Con l’esperienza che Brescia ha avuto nelle lotte per i diritti, forse si poteva cercare di ottenere qualcosa con più con un più alto livello di conflittualità. Anche tra i rifugiati ci sono divisioni, tensioni. E anche verso l’esterno, rispetto a criteri di scelta per partecipare ai progetti che vengono messi in discussione. Non è imputabile a chi non ha le risorse per fare tutto, ma è così”.
“E’ un momento difficile, come mi raccontano anche quelli che si occupano di ex detenuti o disabili. Posti di lavoro, tanti, sono andati perduti. Per tutte le categorie e le più deboli sono molto più colpite. C’è stata poca risposta del territorio, ma il problema è generale, non mi sembra specifico. La precarietà della condizione di queste persone non aiuta a fare un percorso, perché questo aspetto spaventa chi si sente già oberato dalla burocrazia. Ma Brescia, con padroni e padroncini, ha assunto il 50 per cento di immigrati nel settore dell’edilizia, il 60-70 per cento nell’agro-zootecnico, il 30 per cento nel metallurgico e siderurgico: quando il lavoro c’era, assumevano. Sarebbe anche importante che queste persone riescano a raccontarsi e non solo a essere sempre raccontati. Da alcuni anni abbiamo anche trasmissioni affidate in toto a immigrati, ma c’è sempre il problema di fondi per dare continuità. La voce Rom, senegalesi, una delle comunità nordafricana. Il nostro spazio cerchiamo di darlo, perché possano essere protagonisti del loro racconto e non solo del nostro”.
[continua]
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