Mentre a Sarajevo e a Mostar i cittadini organizzano plenum di discussione, la protesta sociale dilaga dalla Bosnia al resto del territorio della ex Jugoslavia. Gli unici paesi a non rispondere, per il momento, sono la Slovenia e la Serbia.
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]
27 febbraio 2014 – Il territorio della ex Jugoslavia è un luogo strano, parla la stessa lingua e ha condiviso per più di un terzo di secolo la stessa storia, ma sembra far finta di non capirsi e di non conoscersi. Forse perché gran parte delle classi dirigenti al potere sono ancora legate a doppio filo con quelle che negli anni ’90 hanno costruito la propria fortuna sulla disgregazione della Federazione.
Tuttavia, a volte succede che alcuni avvenimenti, come le proteste che hanno infiammato la Bosnia Erzegovina negli ultimi giorni, abbiano un’eco ben oltre le frontiere erette e presidiate dai custodi delle nuove nazioni. Così ha risposto la Croazia, la quale aveva già dato prova nel biennio precedente di un rinnovato attivismo, che affondava per la prima volta le radici non nell’antinazionalismo, ma nella lotta per i beni comuni. In Croazia, inoltre, l’influenza della diaspora bosniaca è forte e sono molti i legami che uniscono i due paesi.
Ha risposto il Montenegro, il giovane stato balcanico non particolarmente uso alle proteste sociali, sebbene non manchino certo i motivi, con un sistema politico-affaristico basato su clientelismo e corruzione. Ha risposto la Macedonia, con centinaia di lavoratori di imprese ex statali che sono andate in bancarotta in seguito alle privatizzazioni e che hanno gridato lungo il corteo “Bosnia, Bosnia”, prima di scontrarsi con la polizia. Anche in Kosovo gli studenti dell’università di Pristina hanno manifestato per alcune settimane fino ad ottenere le dimissioni del rettore.
Nelle mobilitazioni di questi giorni ci sono due grandi assenti: la Slovenia, che pur essendo stata fortemente colpita dalla crisi ha subito una sorte un po’ diversa dagli anni ’90, con privatizzazioni meno rovinose, un maggior potere nelle mani dei sindacati e un relativo minore impoverimento di vaste fasce della popolazione; e la Serbia, che invece condivide tutti questi infelici primati con il vicino bosniaco. E proprio la Serbia, insieme al territorio della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina) sono state immobili mentre l’ex Jugoslavia si infiammava. Difficile capire il perché.
Nella Republika Srpska c’è stata una campagna mediatica diretta contro le proteste nate nella Federazione, bollate di essere un’anticamera verso una volontà di annessione da parte dell’entità croato-musulmana ai danni dell’entità serba. Tuttavia, una seppur diversa campagna anti-manifestazioni – tesa a presentare i manifestanti come teppisti – si è sviluppata anche sui media federali, ma non ha fermato le proteste. E inoltre il potere dei mezzi di informazione tradizionali impallidisce nei confronti del potenziale della rete.
Viene da pensare che forse la mancanza di una solidarietà tra i lavoratori dei due paesi si possa legare alle difficoltà che ha in Serbia un’alternativa progressista ad emergere. E che questa difficoltà sia legata, tra le altre cose, anche al fatto che il partito socialista, diretto erede della Lega dei comunisti jugoslavi, sia stato qui, a differenza che nelle altre repubbliche, il responsabile dell’escalation nazionalista prima e bellica dopo. Il fatto che sull’attuale arena politica serba, prossima si confrontino diverse opzioni politiche di centro-destra non è che un altro sintomo delle difficoltà che incontra qualsiasi alternativa progressista nel paese. Le mobilitazioni sociali degli ultimi anni nei paesi della ex Jugoslavia sono avvenute spesso in contrasto con governi o politici social-democratici e con i sindacati, giudicati ormai privi di contatto con le classi sociali. Tuttavia, probabilmente si sono nutriti dello stesso background e delle stesse radici almeno dichiarate.
Intanto, le manifestazioni in Bosnia Erzegovina proseguono e il premier della Federazione croato-musulmana Nermin Niksic, che si è ben tenuto stretta la poltrona nei giorni più caldi, offre concessioni ai manifestanti e aspetta che le proteste scemino per dare posto al disinteresse di sempre. I plenum continuano a riunirsi sia a Sarajevo che in altre città, tra cui anche Mostar, la città divisa par excellance.Tra le loro richieste, elementi di una maggiore giustizia sociale, indagini sulle privatizzazioni truffaldine e taglio dei privilegi della classe politica. Forzare i meccanismi burocratici della Bosnia Erzegovina per apportare un cambiamento non sarà un gioco facile per i manifestanti.
Ma questi plenum sono stati anche e soprattutto importanti perché hanno rappresentato un’occasione per sfogarsi e dire chiaramente quello che non si diceva da anni: che le élite politiche bosniache hanno rubato il futuro di un intero paese offrendo una finta protezione dalla paura dell’altro, a suon di fabbriche, terreni e centrali elettriche svenduti in cambio di un’identità nazionale piccola come un fazzoletto ma tagliata su misura.