Dimenticate gli scenari da Le Mille e Una Notte. A Beirut, tra grandi centri commerciali e le bancarelle di periferia, vince sempre la globalizzazione
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]
4 marzo 2014 – Cose ovunque. Cose dappertutto. Cose da comprare, cose da vendere. Una scena cui siamo ormai abituati in questi tempi di consumismo, ma che ha un sapore tutto particolare quando si parla di Nord Africa e di Medio Oriente. Immagini di mercati affollati, colmi di merci e del vociare di venditori agguerriti, ci scorrono davanti agli occhi. È ciò che vediamo nei film e nelle guide turistiche, la suggestione di qualcosa di magico ed esotico.
Ma la realtà è ben lontana dai sogni ispirati a una lettura frettolosa de Le Mille e Una Notte. Soprattutto a Beirut. Nella capitale libanese non troverete nulla di comparabile alle città vecchie di Damasco o Gerusalemme, Tunisi o Marrakesh. La guerra civile, durata dal 1975 al 1990, rase al suolo il centro di Beirut, facendone una terra di nessuno per gli scontri a fuoco tra i cecchini delle diverse fazioni in lotta. Delle boutique di alta moda e dei mercati di frutta e fiori non rimangono che fotografie in bianco e nero e racconti nostalgici.
Su questa terra di nessuno ora sorge Beirut Souqs, il più grande complesso commerciale della città, oltre duecento fra negozi e ristoranti. Da Zara a Nike, da Louis Vuitton ad Armani, nessun marchio global manca all’appello. Un posto per ricchi, visto che tutte le firme dell’alta moda sono presenti. Ma anche un posto per giovani e famiglie delle classi medie, che qui trovano molti negozi alla loro portata, oltre che un luogo per passeggiare e ritrovarsi lontani dal traffico e dal caos di una città dove gli spazi pubblici di socializzazione sono limitatissimi.
Beirut Souqs ha un aspetto elegante, tutto è pulito e ordinato grazie all’invisibile lavoro di tanti addetti delle pulizie immigrati da Asia e Africa. Su di esso vigilano esercito e compagnie di sicurezza private, perché il lusso – a Beirut come altrove – è potenzialmente un obiettivo politico.
Tutto il centro della città è stato ricostruito da Solidere, la società edilizia di Rafik Hariri, primo ministro sunnita ostile a Siria e Hezbollah ucciso il 14 febbraio 2005. Solidere è anche il nome con cui molti libanesi chiamano questa parte di Beirut, tanto fastosa quanto spettrale. Perché qui si viene per comprare vendere mangiare, non ci si vive. Solo il piano terra degli edifici è animato dai vari esercizi commerciali, il resto è completamente vuoto, disabitato. Come durante la guerra civile.
Anche nella periferia di Beirut si compra. E nella zona orientale si trova quanto di più simile ai mercati del nostro ingenuo immaginario, Souq Al-Ahad, il mercato della domenica (aperto in realtà anche il sabato, perché le regole del business valgono anche sotto il ponte di un’autostrada). Si viene subito travolti dal caos: il disordine delle merci ammonticchiate un po’ in ogni dove, la gente che sgomita per farsi spazio, il rumore di tanti richiami e discorsi che si coprono l’uno con l’altro. Un’atmosfera ben diversa dalla quella ovattata di Beirut Souqs.
Souq Al-Ahad è per metà a cielo aperto e per metà coperta da grandi teli di plastica bianca. Il traffico intorno a quest’area è sempre animato e nervoso. Se si ha la pazienza di cercare, a Souq Al-Ahad si trova tutto. Miele, frutta essiccata e le noccioline che i libanesi amano servire in ogni momento della giornata. Oppure scatole di cereali, pacchi di pasta e riso, barattoli di conserve, come in un qualunque supermercato. Libri usati, scritti nelle lingue più improbabili. Raffinati mobili antichi e un numero esorbitante di anticaglie il cui unico valore sta nel percorso che li ha portati su una bancarella anziché nella spazzatura. Abiti e oggetti vari made in China, la merce che fa da padrone in questo mercato. Souq Al-Ahad è soprattutto plastica e made in China.
A comprare sono prevalentemente persone con pochi mezzi, alla ricerca di cose poco costose. Numerosi inoltre i siriani e gli immigrati dal Corno d’Africa. Chi rovista fra gli ammassi di oggetti usati, chi prova una giacca di pelle finta, chi mangia uno shawarma unto stando in piedi di fronte a una bancarella improvvisata. Qui non si viene per svago, non ci si siede: gli spazi sono troppo angusti e affollati.
Beirut Souqs e Souq Al-Ahad non potrebbero essere più diversi. Il primo è pretenzioso e freddo quanto il secondo è sciatto e brulicante di vita. Eppure sono entrambi espressioni degli stessi bisogni e sfizi. Sono entrambi espressioni di un Paese che poco produce e tutto importa (quasi il 50% dei consumi libanesi è importato): costosi abiti e accessori dall’Europa del lusso oppure oggettini cinesi, poco conta, niente è prodotto in Libano. Non a caso si dice in Nord Africa e Medio Oriente non ci siano produttori, ma solo commercianti. Ma la roba che vendono è raramente quella che immaginiamo nei nostri sogni di esotici luoghi al riparo dalla globalizzazione.