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Un po’ diario e un po’ reportage, il racconto realistico -pertanto mai serio- dell’esperienza di una filosofa che, nell’horror vacui fra un contratto precario scaduto e il miraggio di quello successivo, dà una mano in una stalla piena di pecore e di pensieri.[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/PA070043.jpg[/author_image] [author_info] Irene. Nel 1984 nasco a Savona, probabilmente per una svista balistica della cicogna: appena riesco rimedio all’errore spostandomi in montagna, con la scusa di un dottorato in antropologia alpina. Prima avevo avuto la faccia tosta di laurearmi in filosofia. A me è Wittgenstein che mi ha rovinata: oggi scrivo, faccio la guida naturalistica e mi arrangio. Mi piace tutto quello che faccio.[/author_info] [/author]
9 marzo 2014 – Ma dai, stai in una stalla?!? Che figo!!! – Una, due, dieci volte. Non le conto più. A ogni reazione entusiasta, inizio a inclinare la testa di lato, come un piccione meditativo (ma i piccioni non sono capaci a corrugare la fronte, il che li penalizza).
Qualcosa non mi torna: l’universo mondo, con mio supremo stupore sembra illuminarsi all’idea di trafficare in una stalla. E dire che a occhio e croce le uniche pecore che la maggior parte degli entusiasti ha incontrato erano cucinate e impiattate sotto forma di agnelli pasquali. E allora perché la reazione, quando si parla di pastorizia (questa sconosciuta), è “Uau, che figata!”?
Dopo estesa indagine e approfondita riflessione, ho stilato la seguente casistica di risposte, suddivisa percentualmente. Nel 50 percento dei casi la reazione è dettata da autentico quanto superficiale entusiasmo: chi la esterna si immagina a cantare la ninna nanna agli agnelli e/o a passeggiare su verdi pascoli circondato da morbidi batuffoli bianchi. Si tratta della categoria dei cosiddetti “inchiappettati da Virgilio” o – in francese, che fa più fine – naïf. Un 30 percento di esclamazioni di ammirata invidia è semplicemente dovuto a quelli che mentono per gentilezza, pensando in realtà “ammazza come s’è ridotta male questa: vedi che alla fine ho fatto bene a fare il geometra, altro che università”.
Meno numerosi, ma comunque significativi (25 percento circa) sono gli entusiasmi attribuibili poi a quelli che dicono “che figata” perché hanno l’esclamazione impostata di default, ma in realtà mentre parlavi stavano messaggiando su WhatsApp e non hanno mica sentito. Infine, su cento persone non sono più di 5 o 6 quelle che, nonostante abbiano un’idea piuttosto precisa di cosa significhi fare il pastore e di come funzioni in agricoltura, lo farebbero sul serio (e prima o poi lo faranno) o già lavorano nello stesso campo.
Di tutte le persone cui ho accennato della mia esperienza, gli unici perplessi erano i miei genitori (i quali, conoscendo la mia iposviluppata abilità manuale saranno stati più che altro preoccupati per l’incolumità ovina) e un mio amico che di mestiere fa l’informatico (il suo solo commento: “eh”).
L’unica palesemente contraria era invece mia nonna, nata a Tetto Ruascìn (to’ guarda il caso) a Pogliola (Cuneo), che la campagna e gli animali li conosce per esperienza e per aver tribulato sulla prima e dietro ai secondi insieme ai suoi nove fratelli.
“Vabbè, ma poi trovi qualcos’altro presto, vero?”: nonna era preoccupata perché sa la fatica e il guadagno modesto paragonato all’impegno, nonna è della generazione che ha tribulato per far studiare i figli perché potessero decidere cosa diventare, nonna che quando faceva i tajarìn [tagliatelle fatte a mano] a Montaldo ce n’era sempre anche per Ielmo il pastore di pecore (con la 500 FIAT blu con il pavimento di legno e il sigaro spento – forse sempre lo stesso – stretto fra le labbra), nonna che poi Ielmo tornava con le tome, nonna che ha cucinato i gatti in tempo di guerra e che non è Pasqua senza l’agnello e il capretto.
Una cosa al giorno
Oltre alla corvée quotidiana della stalla, di cui molto lentamente inizio ad assimilare logica e meccanismi, la mia presenza è occasione per qualche opera di manutenzione straordinaria, come pulire e sanificare la stalla o fare legna. Oggi è togliere le ragnatele dal soffitto, domani lavare i muri con l’idropulitrice, dopodomani stendere un sottile strato di acqua e calce, il giorno dopo ancora creare un piccolo recinto. Dopo dieci giorni, salta fuori come una piacevole novità, come un’intuizione fortunata, il fatto di stare imparando a fare (almeno) una cosa nuova al giorno. Il che è normale quando si studia, diventa più raro con gli anni e rischia di sparire nel tempo se non ti alleni a lanciarti nelle imprese più disparate. Ci va anche la fortuna di trovare un buon insegnante ovvero qualcuno che sa fare e che ha la passione di quel che fa. Io c’ho avuto la fortuna.