Un’inchiesta di Seymour Hersh addebita ai ribelli l’uso delle armi chimiche della strage di agosto 2013, ma per i civili siriani non cambia nulla
di Christian Elia
12 aprile 2014 – Immaginate di essere nella casa di una famiglia siriana. Una qualsiasi, ad Aleppo, a Homs, a Idlib o altrove. Immaginate di avere di fronte a voi una famiglia, che se è fortunata ha i soldi per sperare di scappare lontano. Assediati, sotto il tiro incrociato, nel mezzo di macerie tutto attorno a voi.
Almeno 150mila persone sono morte, in questa guerra, milioni sono i profughi. Ecco, adesso immaginate di mettervi a parlare di geopolitica, di Erdogan e di Obama, di Arabia Saudita e Iran, di Qatar e Libano. Difficile, vero? Ci sarebbe da vergognarsi, comunque uno la pensi.
Un meccanismo di spersonalizzazione, costante, sostenuto dei media, che rende possibile un rimosso collettivo di fronte al dramma siriano. L’inchiesta di Seymour Hersh, che addebita ai ribelli l’utilizzo delle armi chimiche in agosto per la strage alle porte di Damasco, è l’ultimo di questi elementi drammatici che però andrebbero valutati con la lucidità necessaria per tenere, sempre, i civili al centro del proprio orizzonte.
In agosto, quando l’attacco di una coalizione internazionale guidata dagli Usa contro il regime di Assad sembrava sicuro (e secondo la ricostruzione di Hersh sarebbe stato fissato per il 2 settembre 2013), abbiamo scritto che troppe volte abbiamo visto e raccontato gli esiti nefasti degli attacchi militari per appoggiarne alcuno. Ora, come allora, si diceva però che restare fermi era il crimine più grande.
Oggi, dopo le rivelazioni di Hersh, il giornalista che in passato ha svelato il massacro dell’offensiva Usa in Vietnam e gli orrori di Abu Ghraib in Iraq, giuste o sbagliate che siano, non cambia nulla. Non cambia per coloro che muoiono: i civili.
Perché è sempre come allo stadio, bisogna schierarsi a prescindere, con i ribelli o con i lealisti. E quindi, di riflesso, con chi li sostiene. In questo approccio muore il buon senso, muore l’umanità e muore anche il giornalismo.
Le zone d’ombra e le colpe di entrambi gli schieramenti, le strategie della politica internazionale (liquidate con ingenua o colpevole leggerezza come ‘geopolitica da salotto’), sono una parte di uno schema di guerra che – se ce ne fosse bisogno – non fa altro che confermare che non esistono poteri buoni. Come si scrisse ad agosto: non è che morire con il gas, da qualunque parte provenga, sia peggio che essere uccisi da un cecchino.
Restano dei fatti: i civili, in Siria, muoiono massacrati ogni giorno, anche di fame, nell’indifferenza generale. Tutto il resto, ma proprio tutto, viene dopo. Deve venire dopo. Deve venire dopo il cessate il fuoco, da ottenere colpendo gli interessi della parti in gioco. Partendo dal presupposto che Assad e il suo regime sono da rimuovere, come lo erano prima del 2011, perché chi ha raccontato la Siria – se in buona fede – non può difendere il presidente siriano.
I giornalisti devono fare i giornalisti, senza auto censurarsi per non correre il rischio di indisporre qualcuno, soprattutto senza voltarsi dall’altra parte, denunciando sempre, perché questo mestiere non dovrebbe prevedere mai apologie, ma solo radiografie. Supportate da dati, fatti e documenti, più che da rumors e voci di corridoio.
Bisogna fermare questo massacro, bisogna fermare chi gioca a Risiko con la vita dei siriani, bisogna impegnarsi nella frapposizione senza cedere al gioco a somma zero delle opposte tifoserie. Bisogna che le ong tornino in Siria, per curare e per denunciare. Bisogna che la società civile torni a farsi sentire, per chiedere la soluzione del conflitto.
Perché ogni famiglia siriana ha bisogno di pace, non di tifosi.
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!
.
.