Il 17 maggio, Lisbona dichiara chiuso il piano di assistenza, ma tanti nodi restano irrisolti
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-20-alle-18.34.04.png[/author_image] [author_info]di Marcello Sacco, da Lisbona. Nato a Lecce, vive da anni a Lisbona, dove lavora come professore, traduttore e giornalista freelance. La sua pubblicazione più recente è “Salazar. Ascesa e caduta di un dittatore tecnico” (Besa 2014)[/author_info] [/author]
15 maggio 2014 – Dal prossimo 17 maggio anche a Lisbona si chiuderà ufficialmente il piano di assistenza finanziaria della troika Fmi-Ue-Bce, iniziato esattamente tre anni fa. La notizia è ormai nota, ma la scarsa attenzione che i mass media in genere dedicano al Portogallo fa sì che venga risparmiato al resto del mondo il trionfalismo, non sempre comprensibile, di una compagine di governo che negli ultimi tempi ha deciso di celebrare la data come un secondo 25 aprile, la fine di una dittatura o la cacciata di un occupante straniero.
Eppure il solo fatto che alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo si parli dell’Unione come di un tiranno invasore, anche se a farlo in questi termini sono poi i “bravi alunni” del governo di Pedro Passos Coelho, è quantomeno materia da psicoanalisi. Ma l’amore-odio, l’invidia e gratitudine per mamma Europa, che allatta e svezza sempre con una certa capricciosa imprevedibilità, ci ha ormai abituati a queste cose.
La stessa riconquistata indipendenza dalla troika (più formale che di fatto: il Portogallo ospiterà ispezioni periodiche di tecnici internazionali finché non avrà restituito il 75 per cento dei 78 miliardi ricevuti in prestito, ossia fino al 2037) da un certo prisma potrebbe essere vista come un abbandono: con la Grecia sempre in cattive acque e l’Irlanda che invece già navigava da sola, i portoghesi dovevano assolutamente alzarsi e camminare nella stessa direzione degli irlandesi, a costo di dover camminare sulle acque.
All’inizio per loro si era prospettata una terza via, quella di una linea di credito precauzionale che li tenesse ancora parzialmente al riparo dalle turbolenze dei mercati finanziari. Ma siamo o non siamo in pieno mese euroelettorale? Nessun leader europeo voleva presentarsi al proprio elettorato con un altro piano di sostegno economico a un paese PIGS, che in questi tre anni non è riuscito a bloccare l’aumento vertiginoso del debito (ora intorno al 130 per cento del Pil) né il tasso di disoccupazione (assestato attorno al 15 per cento) e ha dovuto ritoccare (per poterla raggiungere) la meta del deficit (nel 2013 al 4,9 per cento).
Eppure in Portogallo questi tre anni di rigore economico hanno rappresentato una manovrona da trenta miliardi, dodici più del previsto. Si sono tagliati stipendi e pensioni; aumentate tasse, imposte e balzelli; chiusi tribunali, scuole e consultori.
Dopo una prima reazione massiccia d’orgoglio (le imponenti manifestazioni del settembre 2012), anche l’opinione pubblica, i cittadini, insomma la gente è parsa sempre più tramortita, forse già presa nel fuggifuggi generale: chi va all’estero, chi in prepensionamento, chi dà una spolverata in salotto, scatta una foto e lo mette in affitto su Facebook, contando sull’eterna risorsa dei Paesi cicale: il turismo, da tempo beffardamente favorito anche dalle sfortunate primavere arabe che dirottano sul Mediterraneo settentrionale tutti gli aficionados dell’Egitto. Insomma ci si arrabatta. E forse ci si convince che doveva per forza andare così, che non c’era altra via d’uscita. È il lento ma inesorabile serpeggiare del pensiero unico.
Ma anche a voler vedere il bicchiere mezzo pieno e prenderla come una buona notizia (in fondo poteva andare peggio), la fine di questo programma di sostegno è un po’ come la fine di una lunga malattia. Abbiamo superato i dolori e la paura iniziale, poi l’operazione e il trattamento post-operatorio. Siamo contenti ma visibilmente indeboliti, quando un dubbio ci assale: e se ritorna, avrò le forze per combatterla ancora?
In questi giorni le agenzie di rating stanno correggendo al rialzo le pagelle portoghesi, con voti che gli esperti definiscono ancora spazzatura, ma “spazzatura stabile”. Qualunque cosa ciò possa voler dire, dovrebbe servire a tenere buoni per un po’ i tassi d’interesse e lo spread.
Intanto il governo ha messo da parte un cuscinetto anticiclico di circa 15 miliardi; gli serviranno da protezione fino alla fine del mandato, nel 2015. E poi? Poi alla prima scossa si torna a ballare. A meno che qualcosa non cambi in Europa. Tuttavia, a scanso di equivoci, il primo ad accantonare defintivamente l’ipotesi di una linea di credito precauzionale ed evocare di già l’inevitabilità di un nuovo intervento massiccio in caso di ricaduta era stato un laburista olandese, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem.
Anche Martin Schulz è venuto nei giorni scorsi a Lisbona e ha scattato due selfie con lo stato maggiore dei socialisti portoghesi. Ma nessuno riesce ad estorcere qualcosa di concretamente alternativo all’austerità in corso. Una certa sinistra europea, allenata a piangere sulle diseguaglianze di “terzi mondi” lontani, quanto all’impoverimento dei partner continentali sembra ancora leggermente impreparata. Intanto la troika insiste sull’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e ha già chiesto e ottenuto dal governo, nero su bianco, una misteriosa lettera d’intenti. Chissà perché, verrà resa nota solo a giugno.