Giovedì 15 maggio è stata la giornata mondiale di mobilitazione dei dipendenti dei fast food contro contratti lampo e stipendi al ribasso. Un modello che anche Roberto Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia, ha da sempre promosso per far fronte alla “grande frustrazione della disoccupazione”. Gli ingredienti: flessibilità spinta, scarse comunicazioni e piani d’investimento annunciati anche se non pubblicati. Nel febbraio 2013 Altreconomia dedicò la copertina alla multinazionale del panino
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di Duccio Facchini, da Altreconomia
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22 maggio 2014 – “Fino a oggi ignoravo l’esistenza di un paese chiamato Casamassima, quindi non ho la più lontana idea dei motivi che possono aver indotto il suo sindaco a rifiutare un investimento che, oltre a iniettare qualche miliardo […], poteva garantire un posto di lavoro a qualche decina di giovani”. Così, un noto opinionista del Corriere della Sera ha commentato l’opposizione di un’amministrazione locale della provincia di Bari all’apertura di un punto vendita McDonald’s, catena di fast-food che si accinge ad inaugurare decine e decine di nuovi ristoranti. E conclude: “Aiutare i meridionali è possibile a una sola condizione: che essi ci aiutino ad aiutarli, rimuovendo due proibitivi ostacoli […]: le scartoffie e il pizzo”. Il solito, ben recitato, copione. Peccato che quell’opinionista fosse Indro Montanelli, quella rubrica la “Stanza” e quella stagione l’autunno del 1996. Non è archeologia giornalistica, è pura attualità. Perché McDonald’s, sui giornali e in televisione, ha da poco annunciato di voler tornare a Sud, promettendo 3mila nuovi posti di lavoro in più rispetto ai circa 16mila attuali, distribuiti su 107 ristoranti da aprire ex novo, che andrebbero ad aggiungersi ai poco più di 450 di fine 2012, concentrati prevalentemente da Rimini in su.
Maria Paola Susca Bonerba, professoressa, lontana dall’amministrazione di Casamassima da poco, ha conosciuto con sedici anni d’anticipo parte della strategia del colosso che in Italia fattura oltre un miliardo di euro l’anno vendendo panini e bibite. Che è semplice: quando una regola ne ostacola i piani, la trasforma in pregiudizio ai suoi danni.
Caso di scuola quello di chi sosteneva che McDonald’s promettesse denaro e occupazione mentre Susca Bonerba difendeva il pizzo. “Guardi -racconta al telefono-, Montanelli mi accusò di un qualcosa che ovviamente non era vero. A quell’epoca c’era un grande supermercato, con intorno sette superfici da destinare ad aree commerciali. Se McDonald’s avesse detto ‘vogliamo costruire su una di quelle sette’, noi non avremmo opposto nessuna resistenza, ma la richiesta era di fare una variante, dove non era previsto edificare. I parametri previsti dalla Regione erano già stati superati, quindi noi dicemmo: no”. L’epilogo: “Sa cos’è successo? Tre anni dopo McDonald’s aprì a Casamassima, proprio su una delle sette aree previste” conclude l’ex sindaco.
Le famose scartoffie non erano che leggi e regolamenti, così difficile da digerire.
La campagna. E difficile, crediamo, è non essersi imbattuti dall’inizio del 2013 nello spot tv realizzato per Mc Donald’s dal premio Oscar Gabriele Salvatores, o aver sfogliato le pagine pubblicitarie acquistate sui maggiori quotidiani. Chi non fosse riuscito sappia che la multinazionale è tornata in auge con una proposta dirompente: la crisi attanaglia le imprese e le famiglie, i giovani sono tagliati fuori dal mercato del lavoro e il Paese fatica a ritrovare fiducia nel domani. È necessario un cambio di rotta. Così, nel nome della Costituzione e dell’articolo 1, anche McDonald’s “farà la sua parte”.
Poco più di cento nuovi ristoranti, progettati dai cinque studi di cui l’azienda si serve, e tremila nuovi “assunti” da qui al 2015. L’effetto è centrato: la Cgil s’inalbera, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, dichiara “meglio un’occupazione a tempo piuttosto che niente” mentre Gianfranco Polillo, sottosegretario all’Economia, stigmatizza l’“organizzazione sindacale ipercentralizzata” che rifiuta “quel mondo articolato” rappresentato da McDonald’s. Un’azienda modello che vanta il 94% dei contratti in forma “stabile”, con sette dipendenti su dieci a “tempo indeterminato, ma ha una natura particolare.
McDonald’s style. Un’identità che in Italia assume due forme: la prima è strettamente legata alla società “madre”, la cui filiale italiana si chiama “Mc Donald’s Development Italy Inc.”; la seconda è il “Consorzio McCoop Italia ‘96”, che unisce gli oltre 130 licenziatari -in regime di franchising- che gestiscono l’80% degli oltre 450 ristoranti aperti, impiegando il marchio e investendo denaro.
La prima, detta company, è iscritta dal ’96 al registro della Camera di Commercio di Milano, e risulta essere la sede secondaria di un gigante con la testa a Wilmington, nel Delaware -paradiso fiscale a stelle e strisce che per trasparenza compete con la Svizzera, Panama e le Isole Cayman-. Ma McDonald’s non è Amazon, Google o Ikea. Le “disposizioni dell’esercizio d’impresa” sono quelle italiane. Il fatto è che l’ultimo bilancio depositato e fruibile al pubblico è riferito alla chiusura d’esercizio del 31 dicembre 2002.
E quell’anno la differenza tra ricavi e costi operativi di “McDonald’s Development Italy Inc.” vedeva un margine negativo di ben 34 milioni di euro.
Dieci anni fa, quando a firmarlo era ancora il Cavaliere del lavoro Mario Resca, presidente e amministratore delegato della company dal 1995 al 2007, poco prima d’esser nominato dall’ex ministro dei Beni culturali Sandro Bondi a Direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale, nel 2009. Senza un bilancio aggiornato e attendibile è difficile comprendere le scelte e lo stato di salute di un’azienda.
Dall’ufficio stampa di McDonald’s ci hanno fatto sapere che “a fine mese (gennaio 2013, ndr) la company dovrebbe rilasciare i dati 2012. Ci dicono che siamo in un periodo in cui non possiamo diffondere dati economici, perché il mercato è sensibile”. Il fatto che manchino i bilanci degli ultimi dieci anni è ritenuto secondario, con buona pace di chi, le regole -prima su tutte, la trasparenza-, tende a rispettarle. “In questo momento preferiscono che non si facciano circolare informazioni, ci hanno chiesto il silent period”, la replica.
Situazione che Gian Gaetano Bellavia, commercialista esperto di diritto penale dell’economia e consulente in materia di riciclaggio per conto della Procura di Milano, definisce “fortemente anomala”. Sotto molteplici aspetti: “Oltre agli ultimi dieci bilanci della filiale italiana, qui manca il bilancio della casa madre: se fossi un fornitore pretenderei di avere la piena informazione. In più, mi chiedo come possa essere affidabile una società che nel 2002, in Italia, aveva a consuntivo una perdita di esercizio di addirittura 50 milioni di euro, e che da allora opera sul nostro territorio senza dare sostanzialmente conto della propria gestione economica, patrimoniale e finanziaria. Una situazione, ripeto, anomala, che è però sanzionata in maniera ridicola”. La riservatezza costa poco, infatti: secondo le tabelle pubblicate dalla Camera di commercio, l’impresa che non avesse depositato i bilanci fino al 14 novembre 2011 potrebbe incorrere in una sanzione compresa tra 274,67 e 2753,33 euro -con la possibilità di “pagare in misura ridotta”, entro due mesi dall’accertamento poco meno di 550 euro-. A partire da quella data, la pena prevista è ancora più benevola, praticamente la metà: da 45,78 euro a 1376.
Discorso diverso per la seconda, e più strutturata, ramificazione: del “Consorzio” è disponibile l’ultimo bilancio approvato, relativo all’esercizio 2011. L’impresa, registrata anch’essa dal 1996, ha come oggetto sociale la “promozione dei ristoranti McDonald’s”. I 130 e più “licenziatari” al novembre 2012 ne garantiscono la sostenibilità finanziaria, versando il 4% delle vendite nette. Questo ha comportato nell’esercizio 2011 un monte dei ricavi totali vicino a 43 milioni di euro -più 14,68% rispetto al saldo precedente- e un utile di 410mila euro. Non è l’unico contributo. A ristorante “avviato”, infatti, il licenziatario riconosce, questa volta alla company, un affitto mensile previsto tra il 14 e il 20% delle vendite nette e il 5% -sempre delle vendite nette- a titolo di royalty. Non è finita. È la stessa filiale italiana di McDonald’s a informare il “candidato” licenziatario che, per sedersi al tavolo, bisogna dimostrare di possedere almeno il 40% dell’investimento necessario all’apertura, 500mila euro su un massimo di 1 milione e 150mila euro. Il resto “potrà essere finanziato attraverso gli istituti di credito”.
La scommessa dell’ad. Roberto Masi, una volta al vertice della catena di ipermercati Carrefour Italia, è l’amministratore delegato di McDonald’s Italia dal 2008. Lo scorso dicembre su è limitato ad annunciare attraverso un noto settimanale i 500 milioni di euro d’investimento spalmati su tre anni. Ma del merito e dei criteri di selezione dei nuovi punti vendita, i tempi, la percentuale di ristoranti gestiti dalla casa madre o dai licenziatari, la tipologia, l’impiego sostenuto per la riuscita campagna pubblicitaria non è dato sapere. Salvo che “le strategie aziendali, tra cui i dati pubblicitari, non si comunicano all’esterno”. L’unico squarcio è sui criteri: “Nessuna regione esclusa, per una metratura media è di 500 metri quadrati per l’edificio su un’area complessiva di 3mila”, ci dicono dall’ufficio stampa. In totale fa 321mila metri quadrati: molti.
Per rintracciare i siti di “nuova apertura”, però, bisogna improvvisarsi candidati, seguendo i canali d’assunzione dichiarati dall’azienda. Attraverso il “portale relativo alle posizioni aperte nei ristoranti” sul sito internet di McDonald’s, infatti, alla voce “le nostre offerte di lavoro”, le opportunità in cantiere attivate dal primo ottobre 2012 -due mesi prima della ribalta mediatica- fino a metà gennaio 2013, sono appena sei. Due ad Aosta, una a Monza (Mb), Erba (Co), Curno (Bg) e Loreto (An). McDonald’s dà conto degli aggiornamenti per via delle sole pagine pubblicitarie che acquista: Velletri (Rm), Eboli (Sa), Lecce, Desio (Mb), Nettuno (Rm), Terni, Pomezia (Rm). E in futuro Rubano (Pd), Garlate (Lc), Parma, Viterbo.
Tocca rincorrere, ma il clima di discrezione aziendale pare aver contagiato anche parte degli sportelli attività produttive e commercio dei Comuni interpellati. Domina a Pomezia e a Nettuno, mentre da Eboli invitano a “presentarci di persona”, nel nome della “stessa regola che vale per Carabinieri e Guardia di finanza”. A Viterbo, dov’è presente un ristorante appena fuori le mura, e a Lecce -ve n’è uno in piazza Sant’Oronzo- non risulta alcuna procedura avviata, mentre a Velletri, Terni e Rubano veniamo a sapere che McDonald’s aprirà tramite la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), passaggio a partire dal quale l’amministrazione avrà 60 giorni per verificare il rispetto dei parametri tecnici.
Caso del tutto atipico è quello di Parma: McDonald’s risulta aver comunicato l’inizio dei lavori lo scorso 19 dicembre, salvo poi non aver effettuato altro passaggio amministrativo. La nostra richiesta di informazioni, inviata all’attenzione del settore “attività economiche” del Comune, viene inoltrata dal direttore del Settore servizi al cittadino e all’impresa allo studio di progettisti GA Progetti per McDonald’s Italia, affinché -testuale- “dia le informazioni che crede utile fornire”.
A Garlate, in provincia di Lecco, invece è stato sufficiente che la voce dell’apertura si diffondesse perché arrivassero -direttamente in Comune- 160 curricula nel giro di un mese. Tra questi, quello di un interlocutore che ci ha chiesto l’anonimato: “Ho saputo delle assunzioni di McDonald’s attraverso la pagina Facebook del Comune di Garlate”. Lo attende un periodo di preparazione di due settimane a 12 ore settimanali, con la promessa di un consolidamento una volta preso il posto, più un contratto triennale come apprendista. A lui, questo formato, conviene, perché -riconosce- “riesco a conciliare lo studio e il lavoro, e rispetto a un contratto a chiamata di un bar mi sento più tutelato”. Il sindaco, Giuseppe Conti, che ha bloccato l’anticipata apertura del ristorante perché “avevano troppa fretta”, ci ha detto d’aver pattuito all’interno della convenzione con il fast-food una quota forfettaria di dipendenti -una decina circa su 35- residenti nel piccolo paese. Accordo che, oltre ad esser discutibile per possibili riflessi discriminatori -“un problema che mi sono posto anche io”, riflette Conti-, sarà costretto a confrontarsi con la normativa europea in materia di concorrenza.
I contratti. Ma ciò sui cui più ha puntato la campagna mediatica del gruppo è senza dubbio il lavoro. Lavoro retribuito puntualmente, dov’è semplice far carriera, ultimo rimedio per chi non ha occupazione. In più, a “tempo indeterminato”. Argomenti sottolineati fortemente quanto sviluppati debolmente. Quel che è costante, nel tentativo di spostare l’analisi dal proclama al dettaglio, è la risposta dell’azienda. Nessuna.
Da Milano a Messina, passando per Bologna, emerge però un continuo slittamento verso la diminuzione del monte ore settimanale in capo ai dipendenti. Nel capoluogo lombardo (che conta oltre 550 dipendenti), infatti, risulta essere prassi la stipula di contratti a “tempo indeterminato part time week-end” a 8 ore settimanali, con inserimento al sesto livello, piena disponibilità a spostarsi in provincia presso altre “unità operative d’interesse aziendale”.
Lo sa bene Isa Tonoli, che ha 47 anni e ha speso gli ultimi 28 lavorando nel settore dei fast-food. Nello spot di Salvatores figure come la sua non se ne vedono. Sei scatti d’anzianità, “il massimo”, 30 ore settimanali, “una rarità”, 900 euro netti al mese, “ti basta?”. Anima le assemblee sindacali del “Mc” di Porta Romana (è delegata di Filcams-Cgil) e frequenta griglie, vassoi e divise sin dai tempi di Burghy, la catena di ristoranti della famiglia modenese Cremonini, gli imprenditori della carne, acquistata nel 1996 da Mc Donald’s. Affare che valse alla catena statunitense l’acquisizione di 80 ristoranti esistenti, e a Cremonini un contratto di fornitore “privilegiato” per cinque anni, per 320 miliardi di lire.
Prima di cominciare, Tonoli precisa: “Io non dirò mai ‘no’ a 3mila assunzioni, a patto che ci si racconti la verità. Togliamoci dalla testa che uno si possa scegliere il tipo di contratto, il part-time frammentato è la regola”. Quando le chiediamo il cambiamento più rilevante avvenuto in questi anni, non ha dubbi: “Anche un tempo i contratti erano part-time, ma prevedevano come minimo 30 o 40 ore di lavoro spalmate sulla settimana. Oggi, almeno qui a Milano, la tendenza è cancellare quel tipo di contratto, privilegiando rapporti più frammentati. Stiamo registrando contratti da 20, 18 fino a 8 ore settimanali. Cambiano i contratti, ma il lavoro non è cambiato: si friggevano patatine allora e si friggono adesso”.
A Messina e Milazzo, al contrario, la pianta organica dei ristoranti gestiti da un singolo licenziatario può ancora contare “fortunatamente” su contratti tra le 18 e le 24 ore settimanali, considerando che un lavoratore al quinto livello guadagna 814,35 euro lordi al mese. “Il punto è che seppur assunti con forma part-time -afferma Eliseo Gullotti, segretario provinciale della Uiltucs di Messina che conta una trentina di iscritti-, la giornata è impegnata quasi integralmente, essendo abitudine la suddivisione del turno nelle fasi più intense della giornata: il pranzo e la cena”. Tempo parcellizzato talmente flessibile da avvicinarsi più ad un tempo pieno.
Quando non accade quel che è capitato a Bologna, dove, all’inizio del 2012, 24 dipendenti di Autogrill spa hanno ricevuto una lettera di licenziamento. La catena aveva appena risolto il contratto con il proprietario dei muri del fabbricato di via Stalingrado. A febbraio, i sindacati pretendono dall’azienda l’apertura di un tavolo di salvaguardia, chiedendo che la situazione dei lavoratori trovi una soluzione di continuità con chi gli sta per subentrare, che, emergerà successivamente, è McDonald’s. Alla conclusione dell’iter 12 dipendenti saranno “esodati” dietro transazione, mentre gli altri 12 assorbiti da McDonald’s. A due condizioni: il monte ore settimanale fortemente diminuito, da 30 a 18, subordinato per di più ad un periodo di prova. Il tutto, collegato ad un “accordo di conciliazione individuale” dove il lavoratore è chiamato a far proprio l’impegno di non “richiedere e pretendere” null’altro dal datore di lavoro. Una “vittoria di Pirro”, come la definisce l’unico sindacalista che non ha voluto sottoscrivere l’accordo, Carmelo Massari della Uiltucs di Bologna.
Una storia italiana. Una vittoria annunciata, a Bologna e nel Paese. Perché, come ebbe a scrivere nel ’98 l’allora ad del gruppo Mario Resca insieme al giornalista Rinaldo Gianola nel libro “McDonald’s, una storia italiana”, “McDonald’s contagia il linguaggio, influenza i giornali, la comunicazione, la pubblicità. Si insinua nelle scuole, nelle università, nei cinema, negli ospedali. Ovunque”. E, alle condizioni elencate, non è un’impresa titanica.
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