L’altro volto di Seattle

Reportage da un centro accoglienza di Seattle, la Svizzera d’America, patria di Amazon e Microsoft, ma dove vivono diecimila senzatetto

 

di Stefania Culurgioni

 

30 giugno 2014 – Era una sera di undici anni fa. Shirley stava andando a fare gli straordinari al lavoro. Era in macchina e mentre guidava si è addormentata. È finita sotto ad un camion frigorifero che l’ha quasi decapitata. È rimasta viva per miracolo, ma è rimasta anche disabile. L’assicurazione medica l’ha coperta per qualche anno, poi si è esaurita. Shirley non poteva più lavorare, è diventata una senzatetto.
Jessy fumava il crack. Era arrabbiata, depressa, esausta di se stessa. Ha vagabondato per anni, dormendo sotto i ponti, rubando. Teresa invece era una mamma lavoratrice che guadagnava abbastanza per vivere e mantenere sua figlia. Poi un giorno il suo appartamento è andato a fuoco, lei ha perso tutto ed è diventata una homeless.

La chiamano “La Svizzera d’America”, ma quando si tratta di senzatetto non fa nessuna differenza. La strada è cattiva per tutti, che tu viva in Italia o in America, e la povertà è un’insidia in cui puoi scivolare in qualunque momento.

 

Sala bambini

Sala disegno per i bambini del Mary’s Place

Seattle, costa occidentale degli Stati Uniti nello Stato di Washington, poco più di 600mila abitanti, patria di Amazon e anche di Microsoft (Boeing ha spostato la sede a Chicago e ora è attiva in due cittadine vicine), conta quasi 10mila “senza dimora”. A differenza di quanto accade in Italia, terra di passaggio, dove la maggior parte sono stranieri (ndr secondo uno studio di “Avvocati di Strada Onlus” il 59% sarebbero extracomunitari, l’8% cittadini comunitari e il 33% italiani, con un notevole aumento di questi ultimi), qui per la maggior parte sono americani, certamente anche per le maglie molto strette dell’Immigration Service.

Tossicodipendenti, alcolisti e persone con problemi psichiatrici soprattutto, tra loro anche veterani di guerra (soldati tornati feriti nella mente dall’Iraq e dall’Afghanistan), ma molti anche “homeless per caso”: uomini e donne che fino a pochi anni prima conducevano una vita normale e che poi, per un incidente, un’improvvisa malattia diventata cronica, un licenziamento, si sono ritrovate senza più nulla.

 

Direttrice Mary s Place

Mary Hartman, direttrice Mary’s Place

«Le cause principali che portano all’estrema povertà sono la disoccupazione, la violenza domestica, le tossicodipendenze e le malattie mentali – spiega Marty Hartman, direttrice di Mary’s Place, www.marysplaceseattle.org, un rifugio di accoglienza sulla 9th Avenue – questo è uno shelter riservato alle donne, qui non forniamo posti per dormire ma distribuiamo pasti, vestiti, medicine». Con 130 pasti al giorno e 60 colazioni ogni mattina, una stanza con le docce e una con le lavatrici per fare il bucato, un’altra con tre brandine per riposarsi il pomeriggio (molte donne hanno subito abusi e hanno bisogno di un nido silenzioso), questo grande salone di cento metri quadrati in uno scantinato nel centro di Seattle è uno dei punti di riferimento per le donne senza casa della città: ci arrivano con i loro bambini di pochi mesi, ci arrivano anche quando hanno 80 anni. «Molte non ne possono più delle botte, e allora ad un certo punto se ne vanno da casa, ma non sanno dove. Noi le indirizziamo verso gli shelter dove possono dormire. Altre invece hanno un lavoro, ma lo stipendio non basta per pagarsi un affitto. Magari i loro colleghi al lavoro non lo sanno, ma loro vivono dormendo nei dormitori».

 

Volontarie preparano il pasto

Volontarie del Mary’s Place preparano i pasti

Donne elettriciste, ma anche muratrici, impiegate, cuoche, nurses o cameriere a cui il salario minimo (giusto qualche giorno fa Seattle ha deciso di aumentarlo da poco meno di 10 a 15 dollari all’ora) non basta per provvedere ogni mese all’alloggio: «Molte di loro lavorano solo qualche ora, e con la paga che prendono dovrebbero lavorare almeno 100 ore alla settimana per farcela», continua Mary Hartman.

Nello stanzone intanto entrano ed escono continuamente donne. Alcune hanno lo sguardo perso, vivere in strada ha spazzato via ogni equilibrio psicologico. Probabilmente, piano piano cominceranno il loro percorso con i counselor dell’associazione, torneranno a scuola se non l’hanno finita, faranno corsi di orientamento al lavoro, impareranno a sostenere un colloquio e persino come vestirsi per l’occasione (Dress for success). Se ne avranno bisogno, le ragazze di Mary’s Place (l’associazione nacque da un’iniziativa della Chiesa di Magdalene Church ma oggi è autonoma), daranno loro farmaci, medicazioni, anche gli occhiali da vista, e le metteranno in contatto con gli ospedali per fare la dialisi, o la chemioterapia, o la disintossicazione se serve. «In 15 anni di attività abbiamo tirato fuori dalla strada 1800 ragazze – aggiunge la direttrice – ma il lavoro non finisce mai».

Seattle è una città ordinata. Qui si comincia a lavorare alle 7.30 del mattino, si pranza a mezzogiorno, si stacca alle cinque e si cena presto. I locali chiudono alle dieci di sera. Se confrontata alla vicina Vancouver (in Canada, tre ore di pullman), sembra un paradiso della quiete, con i suoi laghi placidi e il sorriso sempre pronto sul viso delle persone. Il lavoro non manca e il tempo variabile non è un problema.

Anzi, della grande quantità d’acqua che cade ogni anno, i seattolesi ne hanno fatto quasi una mitologia: ci sono affezionati, essere di Seattle significa anche amare la pioggia e gli scherzi del meteo. « if you don’t like the weather in Seattle, just wait 5 minutes », recita un detto.

Teresa, ex homeless

Teresa, ex homeless

Ma il mondo degli homeless sfugge a queste pennellate di pacata serenità. Per conoscerli, basta andare vicino a Pioneer Square, proprio dove il mezzobusto dell’indiano Seattle che ha dato il nome alla città osserva i passanti con la sua aria severa. A qualche decina di metri, in Occidental Street, dove ha sede lo storico caffé Umbria fondato da un italiano, si apre una piazza con le statue di quattro pompieri, in onore ai caduti della categoria. Quella larga strada è il ritrovo di decine di senzatetto. Due strade più sopra, in salita perché la città è costruita su diverse colline, c’è la 3rd Avenue e un Emergency Service Center: gruppi di homeless si radunano anche lì.
In città si contano 40 shelter (dormitori ma anche luoghi di accoglienza diurna), il problema è che di quei 10mila senzatetto censiti, 7mila vanno a chiedere rifugio, ma 3mila dormono all’addiacco. Sotto i ponti, nelle piazze, in edifici abbandonati. Si trovano meglio, o non trovano posto se bussano alle porte troppo tardi di notte, oppure sono troppo drogati, o troppo ubriachi, o persi nella malattia psichiatrica.

Steven sta tutto il giorno sulla 5th Avenue, all’incrocio con Pine Street, il cuore della città dove ci sono grandi negozi di grandi firme. Dice di avere lontane origini italiane, anche se i suoi genitori sono di Chicago, e intanto vende il giornale di strada “Real Change” (www.realchangenews.org), 2 dollari a copia di cui 1 dollaro e 60 resteranno nelle sue tasche. Come tutti i giornali di strada nati negli anni ’90, anche questo è un progetto editoriale e sociale di aiuto ai senza dimora che, vendendolo agli angoli delle strade, racimolano un po’ di soldi per vivere.
Il giornale, diretto da Timothy Harris, ha organizzato pochi giorni fa un piccolo evento: ha sistemato per terra in Westlake Park, un giardino poco distante, 3.123 paia di scarpe. «Il nostro obiettivo – ha spiegato il direttore sul numero di fine maggio – era di rendere visibile a tutti il numero di homeless che non dormono in nessun dormitorio, ma che stanno all’aperto. Non appena abbiamo cominciato a mettere a terra le scarpe, le persone bisognose hanno iniziato a chiederci se potevano prenderle. Sapevamo che sarebbe successo.».

Redeemingsoles.org è un programma di aiuto che ha il fine di distribuire scarpe agli homeless: qualche giorno fa ne ha messe a disposizione 800 paia. Sono finite in meno di 6 ore.

Bill Hallerman è il Responsabile della Catholic Community Services di Seattle: «Forniamo un letto per dormire, assistenza sanitaria, trattamenti medici. I fondi li raccogliamo da una combinazione di proventi che arrivano dal governo e da donazioni private: chiese, singoli individui, ma anche molti aiuti dalle grandi companies come Microsoft ed Amazon. Spesso ci mandano i loro dipendenti per fare esperienze di volontariato, e per ogni dipendente che accogliamo ci danno una quota in denaro. Noi li usiamo per sostenere questa grande opera. Quanto alle persone homeless, il problema spesso è questo: sei hai problemi di salute, per esempio di natura psichiatrica, hai la possibilità di ricevere anche 600 dollari al mese dallo Stato, solo che molti non sanno come fare, o non vogliono fare, la procedura per ottenerli. Molti non accettano di definirsi mentalmente malati. Noi cerchiamo di aiutarli, e ogni anno, tra Seattle e tutta la King County, seguiamo per questo almeno 2mila persone».

 

Elisabetta, una volontaria

Elisabetta, una volontaria

A Mary’s Place intanto è arrivata una donna che parla italiano. Si chiama Elisabetta, ha 66 anni ed è originaria di Asmara, in Eritrea. Racconta che si è sposata a 15 anni, ha avuto tre figli e si è spostata a vivere ad Addis Abeba, in Etiopia: «Ho lavorato vent’anni per una concessionaria dlla Fiat di Torino. Vendevamo auto d’importazione. A fine anni ’90 però tra Etiopia ed Eritrea è scoppiata la guerra e per noi emigrati le cose hanno iniziato a farsi difficili. Così, grazie ad uno dei miei fratelli, sono riuscita a mandare mio figlio negli Stati Uniti. Era bravo a scuola e ha ottenuto una borsa di studio. Poi sono emigrati anche gli altri due, e poi sono venuta anche io. Ho ottenuto la Green Card e dopo un po’ di anni la cittadinanza americana, e oggi vivo con loro. Qui ci vengo per fare la volontaria, per aiutare le altre donne originarie del mio Paese che non parlano la lingua, e che magari riescono ad arrivare come profughe. Diamo loro assistenza, vestiti, un aiuto da cui ripartire».


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