Un libro di ricordi, sensazioni, appunti, raccolti dalla moglie Angela Staude Terzani che in questa intervista ricorda la forza, la depressione e l’eredità intellettuale del marito. Sullo sfondo un litigio con Oriana Fallaci e la delusione da parte di Eugenio Scalfari
di Marco Todarello
Il valore di un attimo può essere enorme, e a lasciarlo sfuggire nel tempo si finisce per perdere una parte di sé. Un attimo – un pensiero, un’esperienza – che va fermato, fotografato, perché linfa vitale e fonte di ispirazione e riflessione.
Un’esigenza ineludibile, per Tiziano Terzani, che in vent’anni ha raccolto quasi tremila pagine di appunti e memorie. Diari che ci restituiscono l’uomo, prima che il giornalista, e con sfumature e dettagli che solo di rado si percepiscono negli articoli e nei libri. Di quei taccuini, fogli sparsi e files, ora ne troviamo una selezione nel volume Un’idea di destino (Longanesi, 2014), titolo mutuato da un appunto trovato tra le sue carte.
Una parola, un paesaggio, un odore, o la minuziosa descrizione di un uomo incontrato su un treno sgangherato della provincia indiana, ma anche i sentimenti e i dubbi, le paure e le angosce di una vita straordinaria, ma sottoposta a pressioni enormi e a stimoli non sempre facili da gestire.
C’è, in queste pagine, anche la geografia umana di un intero continente e dei suoi mutamenti, letta con gli occhi di un abile narratore del suo tempo ma che qui, per la prima volta, vediamo spogliarsi delle regole e dei vincoli del mestiere, e raccontarsi senza rinunciare alla rabbia, ai conflitti e alle sue debolezze. Sono parole nate nell’immediatezza e nella purezza, e spesso con un approccio notevolmente più intimo, rispetto agli scritti pubblicati.
Emerge qui l’energia, quello slancio tipicamente terzaniano verso la voglia di comprendere il senso delle cose, la mai doma sete di conoscenza e l’istinto a mettere in discussione, a interrogarsi, a fare collegamenti.
Non che manchi il metodo, anche in questi pensieri sparsi: è costante il richiamo di Terzani all’importanza di scrivere e conservare i diari, e a farlo in un certo modo, fin da quelli che raccontano l’espulsione dalla Cina raccolti in due faldoni contrassegnati dalla parola cinese “neibu” (ad uso interno). Molti di quegli appunti, nel corso di trent’anni di lavoro in Asia, sono stati per Terzani un laboratorio di idee, in molti casi la base che ha generato libri come Un indovino mi disse e Un altro giro di giostra.
«In quelle pagine ci sono ispirazioni, folgorazioni preferisco chiamarle – racconta a Q Code Magazine Angela Terzani – che Tiziano raccoglieva in questo spazio, cartaceo e poi elettronico, che era un po’ come la sua cantina. Diceva sempre di invidiarmi perché io tenevo un diario da quando ero ragazzina, e poi lui da quando ha iniziato non ha più smesso, a parte qualche pausa».
Era un’esigenza personale o professionale?
«Un po’ entrambe le cose. Molto di ciò che non si scrive subito sfugge, e Tiziano lo faceva perché aveva bisogno di “congelare” le proprie sensazioni e impressioni. Non era un lavoro strettamente giornalistico, ma contribuiva a migliorare il giornalismo. Per spiegarlo, raccontava che le cose più interessanti spesso vengono fuori dopo un’intervista, quando l’intervistato si è rilassato, o così come è nella coda dei discorsi che possiamo trovare dettagli fondamentali».
Quale criterio avete seguito nella scelta dei testi?
«Abbiamo tolto le cose troppo personali che riguardano la famiglia, ma lasciandone una traccia. Abbiamo fatto in modo che si comprendano le dinamiche, ma senza imbarazzare noi e nemmeno lui».
Il libro contiene degli sfoghi anche molto duri, come quando definisce Oriana Fallaci «sciocca e nevrotica prima donna».
«Quando vivevamo in Cina Tiziano e Oriana si erano accordati per tenere una corrispondenza, ma è durata poco. Lui non aveva tempo, ma credo che in realtà si accorse che lei non era il suo interlocutore ideale. L’episodio del libro si riferisce a un’intervista a due da Maurizio Costanzo. A lei non andava bene niente, e lui mi raccontò di trovarsi «davanti a una matta». Non c’era empatia tra loro, ma si sono sempre rispettati».
Terzani parla spesso del «fantasma della depressione». Le parlava delle cause del suo male? Come lo viveva?
«In primis, Tiziano aveva somatizzato uno dei più grandi fallimenti della storia, il progetto del comunismo in Cina, che per lui significava anche un fallimento personale. Era il crollo di un ideale nel quale aveva molto creduto, e cioè il progetto di una società giusta ed equa. Poi andammo in Giappone, con la missione di capire come quella società rispondeva alla sfida della modernità, e si accorse che la risposta era peggiore di quella degli Stati Uniti: un materialismo sfrenato, comodo solo a chi comanda e guadagna, con gli uomini sempre più ridotti a servi ammutoliti, soldati di aziende votate al Dio del profitto. Era il ritorno del feudalesimo, ma al servizio della grande industria».
Un modello che rifiutava fermamente.
«Sì, e non solo perché era un romantico e vedeva sgretolarsi un sistema di valori in cui credeva, ma perché sentiva che così l’umanità stava per fare un enorme passo indietro. E Tokio, in quel momento, era un’icona lampante di questo passaggio epocale: del Giappone storico non c’era più traccia, era tutto occidentalizzato. Gli chiedevano di scrivere di economia, di occuparsi di quanto produce e guadagna la Sanyo o la Mitsubishi, ma a lui non interessava. Lui voleva capire quale economia, per chi e per che cosa.
C’era una terza causa dietro la sua depressione».
Quale?
«Il suo sistema nervoso era stato messo sotto torchio molte volte, fin da quando era bambino. Figlio di operai, costretto da sempre a dover dare il massimo per andare avanti: gli stenti in famiglia, le borse di studio per la Normale di Pisa e la Columbia di New York, l’ostracismo dei giornali italiani, e poi l’alta tensione dei fronti di guerra, i cadaveri, la paura, le volte che ha rischiato la vita e non ultima l’espulsione dalla Cina, che lo ferì moltissimo».
Apprezzato e premiato da Der Spiegel, ma a lungo snobbato dai giornali italiani. Nei diari si percepisce la sua delusione.
«All’inizio ebbe le sue soddisfazioni con L’Astrolabio di Ferruccio Parri e Il Giorno di Italo Pietra, ma quando si trattò di fare il grande salto si vide ostacolato».
Perché?
«Non era a posto con le “credenziali”: veniva dalla stessa area culturale di molti giornali, la sinistra, ma aveva umili origini e non apparteneva a nessuna combriccola, a nessuna coterie del mondo della stampa. Era una questione di etichetta, diciamo pure di casta.
Quando poi Scalfari lo chiamò per collaborare con Repubblica, a dir la verità lo fece perché costava poco. Tutti i suoi rimborsi spese infatti li pagava lo Spiegel e Repubblica doveva pensare solo a pagare gli articoli. Da Scalfari, Tiziano ebbe anche una grande delusione, quando nel 1988 vide arrivare a Tokio Marco Panara come nuovo corrispondente. Si vide rimpiazzato senza alcuna spiegazione, e ci restò così male che tagliò i ponti e iniziò la collaborazione col Corriere. Ma non vide mai realizzarsi un suo sogno, che era quello di diventare corrispondente fisso per un giornale italiano».
Scrive: «l’informazione sta uccidendo la conoscenza». Tra le sue inquietudini c’è anche quella per i cambiamenti, non solo tecnici, che stanno rivoluzionando la professione.
«Tiziano vide con anticipo che gran parte dell’informazione era diventata fulminea ma vuota, un’abbuffata di numeri e dati che però non serviva alla gente per capire le cose. Anzi, creava confusione. Per questo arrivò al paradosso di dire che bisogna scrivere col cuore, un’espressione dura da ingoiare per uno che veniva dalla generazione dei sessantottini.
Era convinto che non si potevano capire e raccontare gli eventi senza sensibilità, senza empatia con le persone e con i diversi ambienti.
Per questo manca, e mancherà sempre di più, una scrittura che sia approfondimento, riflessione, che vada al di là delle apparenze e dei numeri».
A dieci anni dalla morte, qual è l’eredità più grande che ci ha lasciato il Tiziano Terzani uomo?
«Il coraggio. Il bisogno profondo di avere un’etica – verso sé stessi, verso il mondo – anche quando non ci si crede più. E il coraggio di mettere in dubbio le cose, e di non fermarsi davanti agli ostacoli nel cammino alla ricerca del senso del proprio destino».
Un suo insegnamento su tutti.
«Quando scegliamo il nuovo, dobbiamo sempre considerare a quanto di vecchio possiamo rinunciare. Se rinunciamo a tutto, finiremo per non sapere più chi siamo».
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