Tra ristrutturazione e sfratto, una città tra le più vivibili al mondo con il suo lato oscuro, con prezzi secondi solo a Hong Kong e marginalità crescenti
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/06/virginia-fiume.jpg[/author_image] [author_info]di Virginia Fiume, da Vancouver (Canada). @GillaFiume. Cantastorie vagabonda. Lavora come social media editor e content curator. Lavora solo sulle storie che non può fare a meno di raccontare. Il suo blog è www.virginiafiume.com. A Vancouver ha realizzato l’approfondimento sulla cannabis terapeutica Una cannetta in Canada[/author_info] [/author]
29 giugno 2014 – Il 16 percorre Hastings street, una delle strade che tagliano da Ovest verso Est il centro di Vancouver, il downtown. Progressivamente i grattacieli si abbassano, il reticolo di palazzi si fa meno fitto mentre ci avviciniamo all’incrocio con Cambie Street, nel cuore di Gastown, la parte più antica della città, in cui gli edifici di mattoncini rossi risalgono alla fine del ‘800 e ai primi del ‘900.
Proprio nella prima metà del Novecento questa parte di Hastings Street, da Cambie a scendere verso Main Street, dove la strada comincia a chiamarsi East Hastings e si avvicina a Chinatown, si chiamava skid road. La strada dove il legname scivolava verso il porto, ma anche la strada degli sbandati, degli immigrati cinesi e giapponesi, degli alcolizzati e degli oppiomani. E delle prostitute, ovviamente.
È stata l’umanità del Downtown Eastside a salvare uno dei pochi reali patrimoni architettonici della città. Le proteste che dagli anni ’20, con cadenza quasi ventennale, fino all’Expo del 1986 e oltre, hanno evitato che gli edifici dai mattoni rossi e tutto ciò che li circonda venissero abbattuti per realizzare nuove costruzioni.
È come se si dovesse correre su questo confine immaginario tra West Hastings e East Hastings per trovare le tracce dell’anima di Vancouver. È questo uno dei punti in cui più nitidamente si mischiano le anime della città. Te ne stai seduto a bere una birra fresca in uno dei gradevoli patio dei locali e non puoi fare a meno di osservare il vecchio che trascina le gambe coperte da un paio di jeans luridi e usurati, o il ragazzo con il capo appoggiato al carrello della spesa stracolmo. Non fai in tempo a domandarti se è vivo o morto che il tuo sguardo viene attirato venti metri più avanti. Un altro giovane ha davanti a sé una montagna di mozziconi di sigaretta, probabilmente raccolti in settimane, e a mani nude li sta spezzando, versandone il contenuto in un contenitore di plastica.
Vancouver, la città dove Gregor Robertson, il sindaco uscente, rischia di giocarsi le prossime elezioni per una promessa fallita, quella di ridurre il numero di senza tetto in città. Secondo un censimento effettuato a marzo di quest’anno, sono 2.770 le persone senza fissa dimora in tutta la regione della British Columbia, di cui 1798 nella sola Vancouver. Di questi, 538 non hanno alcun riparo. Molti di loro sono tossicodipendenti, sieropositivi, ammalati.
Vancouver, la città che ogni anno, da almeno cinque anni, si posiziona ai primi posti delle classifiche delle città più vivibili del mondo. Quella stessa Vancouver che insieme a Toronto ha condotto il Canada sotto la lente dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) proprio la settimana scorsa. Secondo un rapporto pubblicato il 10 giugno e ripreso dal giornale nazionale The Globe and the mail, il 40 per cento dei canadesi vive in città dove i prezzi delle case sono inaccessibili.
Vancouver ha il rapporto tra prezzo degli immobili e reddito più alto del mondo, seconda solo ad Hong Kong. Il rapporto sottolinea come il problema non sia l’esistenza di una bolla immobiliare, ma il rischio di danni permanenti alla finanza pubblica in seguito a un eccessivo indebitamento dei canadesi per l’acquisto della casa.
Non si può dire che l’amministrazione locale non intervenga per ridurre il problema dei senza tetto o per supportare le persone senza fissa dimora. Entro dicembre 600 unite abitative previste da un recente piano per la casa dovrebbero essere finalmente a disposizione. Si chiama social housing ed è un modello che offre case a prezzi accessibili, qualcosa di simile alle case popolari italiane. Con un dettaglio paradossale: ad aprile è stata inaugurata una di queste strutture, un edificio che è costato 28 milioni di dollari, con 141 alloggi, in cui gli affittuari pagano circa 375 dollari al mese per 30 metri quadri, in una delle zone più eleganti della città. Una zona, quella intorno al 1134 di Burrard Street che offre una vista mozzafiato su English Bay e sulle montagne. Una zona dove comprare una casa di poco più grande di quelle del social housing significa spendere cifre non inferiori ai 400mila dollari.
Queste unità abitative sono la versione contemporanea e vivibile delle single room occupancy. Vecchi alberghi sparpagliati in centro, tra Granville Street, Main Street e Hastings Street in cui le stanze trasformate in piccoli appartamenti vengono da decenni affittate alle persone più povere, con affitti calmierati inferiori ai 500$ al mese. Ma come accade anche in molte città europee, i quartieri più malfamati sono anche quelli con le architetture più affascinanti, in cui mano a mano nascono locali più belli, i negozi più particolari: queste piccole abitazioni possono diventare un investimento interessante.
È qui che si innescano quelle che alcuni giornalisti locali hanno iniziato a chiamare renoviction, un neologismo che unisce la parola renovation, ristrutturazione, e la parola eviction, sfratto. Perché tenere un inquilino che paga pochissimo quando si può sfrattarlo e trasformare una camera singola in un micro-loft per cui c’è qualcuno che è disposto a pagare 800 o anche 1000 dollari di affitto?
È questa serie di contraddizioni che ha allarmato l’OCSE. È questa serie di contraddizioni che mi fa guardare con estrema malinconia la città mentre l’autobus numero 16 attraversa come una lama le anime della città e i muri invisibili che la dividono.