Paesi geograficamente lontani ma in un certo qual modo uniti sotto il periodo del nazionalismo arabo negli anni ’70. Paesi che si sono poi ritrovati sotto il comune denominatore di ‘Primavera Araba’ ma che hanno intrapreso strade diverse. Paesi che hanno visto nuovamente intrecciare il loro destino tramite l’esodo dei profughi siriani attraverso la Libia e da lì verso l’Europa. Libia e Siria. Così lontani, così vicini
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/420123_10151175537452702_1483123099_n.jpg[/author_image] [author_info]di Cristiano Tinazzi. @tincazzi. Classe ’72, giornalista, da circa dieci anni segue gli eventi in Nordafrica e Medioriente. Ha vissuto gran parte della ‘Primavera araba’ tra Tunisi e Tripoli. Ha lavorato per tv, radio, agenzie e carta stampata. Ha un blog, ildottorgonzo.wordpress.com, che aggiorna quando gli pare. Odia Twitter e ha due gatti: Tongo e una profuga siriana presa ad Aleppo. Siria (Hurryia, appunto…)[/author_info] [/author]
Non vi parlerò delle elezioni (fino al 20 luglio prossimo non si saprà nulla di chi ha vinto e chi perso) e dei morti quotidiani, che tanto sono notizie già pubblicate su tutti i giornali.
Vi racconto invece un aneddoto: febbraio 2011. Insalata in piazza Verde (oggi piazza dei Martiri) al Saharya cafè (noto ritrovo di ragazze allegre, dicevano). Una tavolata particolare: io, un quadro dell’Eni e la moglie (al tempo corrispondente Ansa) e il responsabile dell’ufficio di rappresentanza di Unicredit.
Qualche chiacchiera sull’apertura della filiale, niente di che. Si parla del più e del meno. Il tempo è bello, il Castello Rosso immobile sullo sfondo, il mare calmo. La solita noia tripolina. Gli uffici di Unicredit si trovano proprio in uno degli edifici coloniali che si affacciano sulla piazza.
11 luglio 2014 – «Siamo pronti ad aprire la prima filiale. Questione di pochi giorni», dice entusiasta il funzionario. Dopo una settimana a Bengasi scoppia la rivolta. Parte l’Ansa, parte l’Eni e parte anche Unicredit. Fine dell’aneddoto. Succede poi che a guerra finita, nel dicembre 2011 si annuncia il ritorno alla piena operatività da parte dell’istituto bancario italiano: «Unicredit ha ripristinato nei giorni scorsi la completa attività del proprio ufficio di rappresentanza a Tripoli, che era stata ridotta a causa della guerra scoppiata nel Paese. La riapertura della sede, inaugurata nel 2009, rappresenta un segno di fiducia nel futuro». La presenza di Unicredit a Tripoli mira a «rafforzare il rapporto di collaborazione con il Paese nell’attuale fase di ricostruzione e gli intensi rapporti con le nuove autorità, anche nel quadro del rinnovato trattato di amicizia fra l’Italia e la Libia».
Dopo solo due mesi, nel febbraio 2012, la frenata dell’ad Ghizzoni. «Non è il momento di aprire una banca in Libia». Ghizzoni se ne rende conto dopo una capatina istituzionale a Tripoli. Poi io non ne ho saputo più nulla di Unicredit, ma a occhio mi pare che l’instabilità rilevata nel 2012 e peggiorata nel corso degli anni abbia fatto ponderare la decisione ai vertici di Unicredit di aspettare tempi migliori all’infinito.
Mi è venuto in mente tutto ciò perché è di pochi giorni fa l’uscita di un altro gruppo bancario dal Paese, la Hsbc, che aveva aperto il suo ufficio sul suolo libico nel 2006. D’altronde aziende che hanno investito in Libia in questo lungo periodo di caos che dura dal 2011 non ce ne devono essere state molte.
«Ci sono grandi opportunità in Libia per le imprese italiane, soprattutto le piccole e medie, nei settori dell’energia, alimentare, franchising, costruzioni autostradali e delle ferrovie ad alta velocità, servizi finanziari, turismo culturale, ricerca mineraria, costruzione di desalinizzatori», diceva il presidente del Lybian Policy Institute, Mustafà A.G. Abushagur, ex vice Primo Ministro sotto el-Keib.
«Vogliamo incoraggiare gli investimenti locali e internazionali a venire in Libia, promettendo protezione, sicurezza e la collaborazione del governo. Vogliamo modernizzare il sistema bancario…». Era il 2012 e una gigantesca risata deve averlo seppellito per tutto il 2012, 2013 e 2014, all’Abushagur ogni volta che c’è stato il rapimento di tecnici stranieri delle poche aziende che si sono decise ad investire in Libia. Insomma, se le banche incominciano a togliere le tende e gli investimenti latitano beh, è segno che il futuro del Paese è ancora più nero di quello che sembra.
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