BNP Paribas condannata negli Usa a pagare 8,3 miliardi di dollari per violazioni delle sanzioni contro Karthoum
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/07/10566619_1396506580386967_1438872477_n.jpg[/author_image] [author_info]di Matteo Zola. Giornalista professionista, classe 1981, ha lavorato a Narcomafie occupandosi di crimine organizzato transnazionale. E’ fondatore e direttore di East Journal, quotidiano online sulla politica dell’Europa orientale. Si occupa di Africa collaborando con Nigrizia. Nel tempo libero scrive di critica letteraria, sua vera passione.[/author_info] [/author]
27 luglio 2014 – Il Nilo bianco non bagna New York, scorre fino a Giuba e Khartoum, ignaro di come un altro fiume, di denaro sporco, sia arrivato a inondare di sangue il Sudan.
A New York però c’è un giudice che si è fatto una domanda: qual è la pena giusta per un’azienda che favorisce la pulizia etnica? Così l’istituto di credito francese BNP Paribas è stato costretto a pagare 8,3 miliardi di dollari – pari all’ammontare di un intero anno di profitti – poiché colpevole di avere violato le sanzioni economiche verso il Sudan dove un regime criminale stava consentendo lo sterminio di centinaia di migliaia di persone nella regione del Darfur.
Secondo i giudici americani, la banca francese ha giocato un ruolo centrale nel consentire ad alcuni clienti l’aggiramento delle sanzioni, contravvenendo alle norme in materia di riciclaggio. Il denaro arrivato in Sudan sarebbe poi servito a finanziare l’esercito e le milizie paramilitari agli ordini di Khartoum, responsabili di omicidi, stupri e saccheggi. In quello che fu un anno chiave della crisi del Darfur, il 2006, la filiale svizzera della BNP gestiva quasi la metà dei conti in valuta estera dello stato sudanese favorendo transazioni illegali per quasi 190 miliardi di dollari.
Le sanzioni nei confronti del Sudan cominciarono nel 2005. Il regime di Khartoum, da decenni impegnato in una lunga guerra civile con i ribelli del sud, raccolti nell’Esercito sudanese di liberazione popolare (SPLA), era giunto in quell’anno all’accordo di Naivasha. L’accordo conferiva l’autonomia al Sud Sudan e spianava la strada al referendum per l’indipendenza del 2011. Ma mentre da un lato Khartoum era costretta alla pace, dall’altro finanziava le milizie Janjawid impegnate in Darfur in un conflitto contro le popolazioni Fur, Zaghawa e Madalit. Un conflitto condotto con le pratiche proprie della pulizia etnica che, nel 2005, si estese al Ciad. Nel 2006 Khartoum lanciò una violenta offensiva, dopo essersi opposta all’arrivo di truppe Onu. Malgrado tutto ciò, BNP Paribas non ha cessato di aiutare i suoi clienti nelle transazioni finanziarie verso il regime di Khartoum.
Due i capi d’accusa nei confronti della banca francese: fabbricazione di falsa documentazione aziendale e collusione con quei clienti che, tramite la banca, hanno potuto far giungere capitali sporchi in Sudan. BNP Paribas ha provato a difendersi sostenendo di non aver violato alcuna legge europea e che le operazioni contestate nulla c’entravano con gli Stati Uniti. Sul primo punto hanno ragione, non esistono leggi in Europa che impediscano di finanziare, direttamente o indirettamente, regimi genocidari. Diversa è però la situazione negli Stati Uniti dove, con decreto presidenziale, il Sudan era stato posto sotto embargo in virtù di una legge speciale del 1977 (l’International Emergency Economic Powers Act) che consente la limitazione di operazioni finanziarie e commerciali in dollari con alcuni paesi di volta in volta indicati in una lista nera di cui, in quel 2006, facevano parte anche Iran e Cuba. E siccome le transazioni di BNP Paribas sono state fatte in dollari, tramite alcuni uffici di New York, i giudici americani sono intervenuti.
Per evitare il processo, che le sarebbe costato molto di più, finanche la perdita della licenza ad operare nello stato di New York (dove ha sede Wall Street), BNP ha negoziato un patteggiamento. Oltre agli 8,3 miliardi di multa, l’istituto è stato temporaneamente interdetto da alcune transazioni in valuta americana nei settori del petrolio e del gas. La sentenza parla di una “pratica sistematica” coperta da “alti dirigenti” che hanno compiuto “grandi sforzi per nascondere le operazioni vietate”.
Benché la banca abbia fatto sapere di poter “assorbire il colpo” in quanto la sua liquidità resta “del tutto solida”, la reazione francese, in tempi di crisi, è stata dura. Il ministro all’Economia, Arnaud Montebourg, ha parlato di “guerra economica” e il presidente Francois Hollande ha scritto una lettera all’omologo americano facendo presente la delicata situazione economica francese ed europea.
Michel Sapin, ministro alle Finanze, ha dichiarato che “la dittatura del dollaro deve finire” e che “bisogna che l’euro diventi moneta internazionale” . Il problema, però, non è la moneta che si utilizza ma l’uso che se ne fa. Per quanto gli Stati Uniti “siano inclini a punire le banche straniere come metodo per fare cassa”, come sostenuto dall’Economist, è pur vero che quello del Sudan era un regime responsabile di crimini di guerra e che quei soldi venivano utilizzati anche per finanziare lo sforzo bellico in Darfur dove sono morte – vale la pena ricordarlo – circa 400mila persone. Quello che rende l’euro più appetibile è l’assenza in Europa di regole che impediscano operazioni di questo genere. Regole che dopo questa sentenza sarebbe necessario introdurre.
Certo, gli Stati Uniti non applicano questa legge per filantropia. L’embargo finanziario è applicato a tutti quei paesi che Washington ritiene nemici, tra cui Cuba e l’Iran. Nel caso del Sudan l’embargo finanziario è stato posto per il timore che il regime di Khartoum finanziasse il terrorismo islamico internazionale. La “moralità” dell’intervento americano è dunque colposa.
Ma l’immoralità di BNP Paribas è dolosa. Paradossalmente il mercato finanziario europeo – nella sua assenza di regole – pare meno discriminatorio. Ma sarebbe auspicabile che una regolamentazione alle transazioni verso regimi militari colpevoli di persecuzioni di massa e pulizia etnica venga messa in atto anche in Europa, magari sotto auspici differenti di quelli d’oltre oceano dove, a dirla tutta, i processi alle banche europee stanno diventando un modo di fare cassa per le pubbliche amministrazioni.
Non è la prima volta che la giustizia americana interviene a punire le pratiche criminali degli istituti bancari europei. Nel 2012 era stata la volta dell’olandese ING e della britannica Standard Charterer, condannate a pagare quasi 700 milioni di dollari ciascuna per transazioni illecite verso paesi sottoposti ad embargo, come l’Iran e la Birmania.
Nel giugno di quest’anno Credit Suisse aveva segnato il record di 2 miliardi di multa per evasione fiscale ma quella cifra è stata polverizzata dagli 8,3 miliardi comminati a BNP Paribas la cui condanna è la più dura che sia mai stata emessa verso una banca. Servirà da monito? Dicevano gli antichi che pecunia non olet, il denaro non puzza. Nemmeno quando è sporco di sangue.
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