Il museo della fotografia di Tokio dedica una retrospettiva ad Akihiko Okamura che dal Vietnam alla Nigeria raccontò per immagini diversi conflitti del XX secolo
di Stefania Culurgioni
14 agosto 2014 – Un’autobomba viene fatta esplodere di fianco alla vecchia ambasciata americana di Saigon. Sono le 10:50 del 30 marzo del 1965. Muoiono più di venti persone, tra vietnamiti e americani, 180 restano feriti. Lui è lì: si infila nell’edificio appena sventrato, scatta una foto da dentro una delle stanze. Dalle tendine a listelli di una finestra andata in pezzi, la luce del giorno sembra esplodere all’interno e illumina la parte inferiore dell’immagine: vetri sul pavimento, i resti dell’esplosione, in una parola: la guerra. Quella che Akihiko Okamura, fotoreporter giapponese nato nel 1929 e morto nel 1985, continuerà a documentare per tutta la sua vita, e non solo in Vietnam.
Una mostra al Museo della Fotografia di Tokyo gli rende omaggio fino al 23 settembre. È un modo per illuminare la vasta opera di uno dei fotografi di guerra giapponesi più interessanti e praticamente sconosciuti ai più che hanno catturato da vicino e raccontato la storia di conflitti, violazioni dei diritti e distruzioni dal Vietnam all’Etiopia, dall’Irlanda del Nord alla Nigeria. Insomma, Tokyo non è dietro l’angolo, ma se ci passate, ne vale la pena.
L’esposizione si apre con le foto che Okamura ha scattato in Vietnam a partire dal 1963. Okamura aveva firmato un contratto con la PANA news agency (ndr la “Pan Asia Newspaper Alliance” fu fondata a Tokyo alla fine degli anni cinquanta dal giornalista Tokokazu So che si diede questo slogan: “fare reportage sull’Asia, fatti da Asiatici, per Asiatici”. L’Agenzia reclutava giovani fotogiornalisti che non solo scrivevano i testi ma producevano anche reportage fotografici e, cosa rara all’epoca, sapevano molto spesso parlare inglese.
La PANA aveva l’ambizione di competere con le grandi agenzie fotogiornalistiche occidentali e Okamura ebbe presto un buon seguito tra i nuovi arruolati: aveva un carattere allegro, un po’ spavaldo e certamente molto sicuro di sé).
Prima di arrivare in Vietnam, Okamura, che all’epoca aveva 36 anni, aveva viaggiato per otto mesi tra la Tailandia e il Laos. Quando finalmente raggiunse Saigon, capitale nel 1963 del Vietnam del Sud, erano appena scoppiati i primi disordini: da un lato i guerriglieri del Fronte di Liberazione del Vietnam del Sud (appoggiati dal comunista Vietnam del Nord) che protestavano contro il governo del cattolico Ngo Dinh Diem, supportato inizialmente dagli Stati Uniti.
Okamura fotografò le proteste dei Vietcong comunisti, fotografò la repressione ad opera delle truppe governative, anche contro i monaci buddisti, e fotografò anche l’arrivo dei soldati americani per dare man forte all’esercito governativo del Vietnam del Sud, nel tentativo di impedire una riunificazione del Paese sotto la bandiera comunista.
Okamura era sempre lì: coraggioso, armato di macchina fotografica e di un dizionario vietnamita, disposto a seguire i Vietcong nei villaggi, a vedere come viveva la popolazione, persino ad inoltrarsi con loro nella giungla.
Il punto però era un altro: per quanto temerario e talentuoso Okamura potesse essere, la sua agenzia (la Pana news agency) che tuttavia riceveva le sue foto, non le usava. Nel Giappone degli anni sessanta la guerra in Vietnam era praticamente sconosciuta, importava poco, e Okamura rimase a lungo nell’ombra. Quanto meno finché non cominciò a spedire i suoi reportage alla rivista Life, che invece glieli pubblicò senza sosta. Nel 1965 seguì i Vietcong per entrare in contatto con il nucleo del Fronte di Liberazione, fu accusato di essere una spia americana e fatto prigioniero per 53 giorni: poco male, l’esperienza servì.
Okamura riuscì ad intervistare Huynh Tan Phat, il secondo più alto ufficiale in forze al FNL. Risultato? Un bellissimo reportage, ma quanto a lui, fu bandito dal Vietnam del Sud per cinque anni.
È a quel punto che il fotoreporter cambia scenario: visita la Cambogia, la Malesia, la Corea. Poi visita le Hawaii, Tahiti, La Nuova Zelanda e l’Australia. Poi passa alla Repubblica Dominicana dove raccoglie le storie di un gruppo di immigrati giapponesi che vivevano nelle montagne di Jarabacoa, quindi si butta ad esplorare l’America, Boston, New Orleans, e conosce l’ambasciatore americano in Giappone Edwin O. Reischauer.
Nel 1968 va in Irlanda: ecco una nuova guerra da fotografare, quella tra protestanti e cattolici. Okamura trasferisce a Dublino l’intera famiglia e poi parte per la Nigeria dove i ribelli del Biafra protestano per ottenere l’indipendenza. Lì sarà scattata l’immagine di un soldato che cade a terra dopo essere stato colpito al petto da una pallottola.
Infine, dal 1970 al 1974 c’è l’Etiopia, il lungo viaggio a piedi sulle montagne nella zona di Wollo dove il fotoreporter documenterà cosa vuol dire morire di fame. È in queste fotografie che Okamura cercherà di raccontare un aspetto inedito: quanta dignità riesce ad avere un essere umano anche in condizioni estreme. Da quel momento, il tema sarà uno: raccontare l’umanità secondo una prospettiva, cioè coloro che hanno perso la loro casa, coloro che ne sono stati cacciati, a cui l’hanno devastata, che non ce l’hanno mai avuta o che la amano profondamente e vogliono viverci in pace.
Tokyo Metropolitan Museum of Photography
Fino al 23 Settembre
Fermata della Metro: Ebisu
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