Pillole indigeste di Esteri

Paesi geograficamente lontani ma in un certo qual modo uniti sotto il periodo del nazionalismo arabo negli anni ’70. Paesi che si sono poi ritrovati sotto il comune denominatore di ‘Primavera Araba’ ma che hanno intrapreso strade diverse. Paesi che hanno visto nuovamente intrecciare il loro destino tramite l’esodo dei profughi siriani attraverso la Libia e da lì verso l’Europa. Libia e Siria. Così lontani, così vicini

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/420123_10151175537452702_1483123099_n.jpg[/author_image] [author_info]di Cristiano Tinazzi. @tincazzi. Classe ’72, giornalista, da circa dieci anni segue gli eventi in Nordafrica e Medioriente. Ha vissuto gran parte della ‘Primavera araba’ tra Tunisi e Tripoli. Ha lavorato per tv, radio, agenzie e carta stampata. Ha un blog, ildottorgonzo.wordpress.com, che aggiorna quando gli pare. Odia Twitter e ha due gatti: Tongo e una profuga siriana presa ad Aleppo. Siria (Hurryia, appunto…)[/author_info] [/author]

14 agosto 2014 – Qualche giorno fa, in mezzo al casino libico, chiamo un paio di miei amici libici. Ragazzi della rivoluzione, Corano e moschetto. E uno anche un po’ rap e ganja. Che fai? gli dico, siete scesi a combattere? “sto a casa”, risponde quello. “Nessuno esce adesso. Appena possibile prendiamo una macchina e scappiamo in Tunisia. Credimi amico mio, è peggio di quando nel 2011 eri qui durante i combattimenti di Tripoli”.

 

siria-guerra

Peggio di quando ero a Tripoli, dicono loro. Alberghi evacuati e chiusi, la sicurezza privata sparita, milizia di ogni genere e colore che si sparano per strada. I effetti prima era tutto più facile. Gheddafiani e ribelli. Adesso vedi quelli di Misurata che sparano intorno all’aeroporto gli stessi Grad che lanciavano i governativi sui civili. Tre anni e nessuno ha imparato un cazzo.

Kosovo. La settimana scorsa mi trovavo a Djakova per il Risc, un corso di primo soccorso in zone di guerra. Albergo di classe tipo chalet svizzero, locali uno dietro l’altro tipo Navigli, una birra a un euro, gin tonic uno e cinquanta. E di contorno una marea di belle figliole locali, Hummer e Lamborghini bianche.

Il difetto che hanno i giornalisti è che in qualsiasi luogo parlano di giornalismo. Ho provato a stemperare la cosa insieme con una serie di gag ad effetto e imbecillità varie insieme ad altri gigioni del calibro di Martyn, fotografo neozelandese trapiantato in un sacco a pelo a Istanbul.

Ma alla fine sempre della stessa pasta siam tutti, così si parla di Siria. Maciej vuole tornare là. “Senza assignment no”, dice un altro più anziano. “Col cazzo che ci vado se non pagano”. Soldi. Non è una questione di avidità, ma di sicurezza. Niente soldi, niente macchina, fixer, piani di fuga eventuali, persone da ‘affittare’ per togliersi dai coglioni al più presto. La Siria rimane là, un miraggio, un posto dove andare solo se ti pagano e il dovuto. Ma siccome gli editori non ti pagano, rimani a parlarne davanti a una birra.
Roma. Torno in Italia e leggo del tagliatore di teste con il nome da scimmia, del Mullah che vuole uccidere tutti gli ebrei a San Donà di Piave, della psicosi di Ebola, della falsa news delle infibulazioni, e delle cazzate di Salvini. Notizioni da prima in estate avanzata, ma i 5700 morti siriani fatti nel solo mese di luglio invece non fanno notizia. L’Isis avanza in Iraq e tutti dormono. Il fiume di sangue siriano e tutti dormono. Solo su Gaza si riattivano i neuroni degli attivisti e della gente comune che clicca, condivide, commenta.

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