A Hergla, Tunisia, la decima edizione dei Rencontres Cinématographiques: film e documentari tra Africa e Mediterraneo
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/giada-frana.jpg[/author_image] [author_info]Di Giada Frana, da Tunisi, @Giady87. Giornalista pubblicista, laureatasi a Bergamo in Lettere con la tesi “La questione migratoria nei mass media italiani”. La passione per il mondo arabo si è sviluppata nel tempo. Ama scovare storie che vadano contro i pregiudizi su migranti ed Islam. Attualmente vive a Tunisi e lavora come freelance. Collabora con l’Eco di Bergamo, La Città Nuova, Linkiesta, Vita e Santalessandro.org. [/author_info] [/author]
30 agosto 2014 – Hergla è un piccola cittadina della Tunisia, situata sulla costa nord–est, a circa 25 chilometri da Sousse. Qui, dal 2005, l’Associazione culturale Afrique Mediterranée organizza ogni estate gli “Incontri cinematografici di Hergla”, luogo di scambio tra il cinema africano e del Mediterraneo, che si terranno fino al 31 agosto. Tra cortometraggi e documentari, questa manifestazione cerca di rompere lo spirito commerciale dell’industria cinematografica per scoprire e presentare al pubblico i progetti cinematografici più interessanti, diversificati ed originali. Le proiezioni serali all’aria aperta, proiettati in un antico frantoio, i dibattiti con gli autori ed i registi, fanno di questo festival un luogo in cui i giovani possono confrontarsi con i professionisti del cinema e condividere le loro opinioni. Gli incontri cinematografici di Hergla sono organizzati dall’associazione culturale El Jesr e dall’associazione Hergla Moustakbal, grazie al patrocinio, tra gli altri, dell’Unione Europea, dell’Istituto Italiano di Cultura a Tunisi, del Ministero della Cultura tunisino, dell’Associazione Il Ponte e Slow Food.
L’inaugurazione del festival è toccata al giornalista e cineasta palestinese Abdesslam Abou Askar, che ha presentato in anteprima mondiale “Gaza under exposure”. Quante volte, parlando di Gaza, le vittime sono state ridotte a dei soli numeri? “Gaza under exposure” ribalta la prospettiva in maniera toccante, presentando il dramma di Gaza attraverso le persone. Il documentario si apre con la visuale di alcuni gazawi che si fanno strada attraverso le macerie delle loro abitazioni: la voce narrante è quella di Abdesslam, che ci accompagna per tutta la durata del documentario.
La telecamera inquadra una donna: spiega che lei non avrebbe mai voluto abbandonare la propria casa, lasciandola in mano agli israeliani, ma quando i vicini le hanno riferito che da lì a poco l’avrebbero rasa al suolo, non ha avuto alternativa. Una casa costruita con il duro lavoro di vent’anni, rasa al suolo in soli venti secondi. La nuova sistemazione della famiglia è la scuola, trasformata in un campo sfollati. Le classi dove i loro figli dovrebbero studiare e giocare, trasformate in stanze dove poter dormire e tirare – si spera – un sospiro di sollievo. “In casi di emergenza, si danno perlomeno delle tende. Dove sono le nostre tende promesse dall’Onu?” chiede a gran voce la donna.
Lo sguardo della cinepresa si posa sulle tende di fortuna messe insieme dai gazawi con coperte, tende di ospedale, tutto quello a portata di mano. Si punta il dito contro l’Onu, ma anche contro i governi arabi. “Perché l’Egitto non ci aiuta?” chiede un uomo. I morti continuano, scorrono immagini di esplosioni, la rincorsa a cercare i propri cari sotto le macerie, la speranza nel volto di una neonata estratta ancora viva. Eppure il cimitero non basta più, le stesse tombe vengono riutilizzate per seppellire i nuovi “martiri”. Nonostante questo a Gaza non si smette di cercare la normalità, che si ritrova nella quotidianità dei giochi dei bambini, nel cucinare i dolci per la fine del Ramadan, nel festeggiare i compleanni.
“Volevo realizzare qualcosa che facesse esplodere i sentimenti – spiega Abou Askar -, non un dejà–vu, ma un progetto che desse qualcosa di nuovo al pubblico”. Il documentario proiettato ad Hergla è una copia provvisoria, fatta espressamente per questa occasione. Il progetto, 28 ore di riprese, 12 giorni di montaggio per 15 ore al giorno, è stato quasi una gara di solidarietà: “Nonostante l’enorme competizione – continua Abou Askar – tra le case di produzione, ho ricevuto diversi contributi da più persone. C’è stata addirittura un’agenzia di stampa che mi ha dato la password per accedere ai suoi archivi e prendere il materiale di cui potevo aver bisogno”. La difficoltà nel girare il documentario per Abou Askar non è stata solo fisica, ma soprattutto emotiva: “In un certo senso si è nell’immagine che si filma”. Nonostante a volte si abbia l’impressione di essere abituati al dolore, Abou Askar – così come gran parte del pubblico – si commuove quando racconta del suo amico Mohamed, soprannominato “Maradona”, uno stackanovista che si trovava perennemente nel suo ufficio al lavoro: “Avevano bombardato il suo ufficio, ma non si trovava lì: ho saputo che era andato in un altro quartiere, a qualche chilometro di distanza. Ho cercato più volte di chiamarlo al telefono, senza ottenere risposta. Dopo poco tempo, mi richiama: la voce apparteneva a un’altra persona, che aveva trovato il cellulare vicino alle macerie della casa del mio amico e ha composto l’ultimo numero che ha trovato. Lì ho capito che lui e la famiglia erano morti. Un’ora prima mi aveva chiamato chiedendomi come stavo e dicendomi che andava tutto bene”. Abou Askar ricorda le due condizioni rivendicate dai gazawi: avere un aeroporto e il porto, condizioni che erano state già poste in passato ed accettate, finché il 21 gennaio 2001 Israele non decise di bombardare l’aeroporto ed annullò il progetto del porto. Dal pubblico qualcuno chiede quale sia secondo lui la soluzione per la fine dei conflitti: la resistenza armata o i negoziati? “Io sono per i negoziati politici – risponde il giornalista/cineasta – accompagnati dalla resistenza armata. Vent’anni di negoziati non hanno risolto nulla, ma senza il sostegno dei governi arabi e internazionali non si andrà da nessuna parte”.
L’atmosfera commuovente è stata poi risollevata grazie al documentario “El gusto” di Safinez Bousbia, sulla musica chaâbi algerina. Bousbia, nata ad Algeri, ha soggiornato e lavorato in Svizzera, Inghilterra, Francia, Irlanda ed Emirati Arabi. Dopo aver studiato architettura ad Oxford, ha frequentato un master a Dublino. Il film è nato per caso: nel 2003, durante un viaggio in Algeria, scopre casualmente il mondo della musica chaâbi. La regista entra in una bottega per acquistare uno specchio nella Kasbah di Algeri; il proprietario, il signor Ferkioui, comincia a raccontarle la sua passione per la musica chaâbi, un amore mai finito, e dei tempi in cui l’uomo faceva parte della prima classe di questo tipo di musica al conservatorio di Algeri, diretto dal fondatore della musica chaâbi, El Hadj M’hamed El Anka. Colpita profondamente dalla nostalgia di quest’uomo, decide di rimettere in piedi l’orchestra e di riunire tutti i membri che la componevano, ebrei e musulmani. Un’impresa non certo facile: diversi sono emigrati all’estero e ci sono voluti nove anni alla giovane Bousbia, alla sua prima – riuscitissima – opera, per poter riuscire a realizzarla. La musica chaâbi, ossia “del popolo”, è una musica tradizionale algerina che riunisce la musica berbera ed andalusa. La musica andalusa in Algeria era riservata alla borghesia, una musica piuttosto snob, con citazioni in arabo e testi lunghissimi. La musica chaâbi invece è quella del popolo, e “El gusto” lo mostra perfettamente, ripercorrendo i luoghi dell’esplosione di quest’arte e intervistando i diversi componenti dell’orchestra.
Ma il documentario non è solo un omaggio alla musica tradizionale algerina, ma molto di più: trasporta lo spettatore in un’inedita Algeri, in cui musulmani ed ebrei convivevano pacificamente, fino a portarci nell’Algeri in lotta contro l’indipendenza dalla Francia, una lotta in cui la stessa musica chaâbi ha fatto la sua parte: spesso le canzoni contenevano messaggi in codice, parole che solo il popolo algerino poteva capire che significassero “indipendenza”. “El gusto”, il nome che prenderà poi il gruppo di musicisti riunitesi dopo 50 anni, è una parola spagnola che indica “il gusto”, ma nell’Africa del Nord, integrandosi ai dialetti locali, nella lingua algerina significa “la gioia di vivere”. Una parola scelta non a caso: l’orchestra incarna perfettamente questa gioia di vivere, la gioia nel ritrovare vecchi amici dopo cinquant’anni di silenzio e dedicarsi con loro alla musica chaâbi, cara al popolo algerino. La serata si è conclusa con la performance del gruppo algerino di Nessim Bour, che non poteva che portare sul palco la musica chaâbi.
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!
.