Paesi geograficamente lontani ma in un certo qual modo uniti sotto il periodo del nazionalismo arabo negli anni ’70. Paesi che si sono poi ritrovati sotto il comune denominatore di ‘Primavera Araba’ ma che hanno intrapreso strade diverse. Paesi che hanno visto nuovamente intrecciare il loro destino tramite l’esodo dei profughi siriani attraverso la Libia e da lì verso l’Europa. Libia e Siria. Così lontani, così vicini
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/420123_10151175537452702_1483123099_n.jpg[/author_image] [author_info]di Cristiano Tinazzi. @tincazzi. Classe ’72, giornalista, da circa dieci anni segue gli eventi in Nordafrica e Medioriente. Ha vissuto gran parte della ‘Primavera araba’ tra Tunisi e Tripoli. Ha lavorato per tv, radio, agenzie e carta stampata. Ha un blog, ildottorgonzo.wordpress.com, che aggiorna quando gli pare. Odia Twitter e ha due gatti: Tongo e una profuga siriana presa ad Aleppo. Siria (Hurryia, appunto…)[/author_info] [/author]
30 agosto 2014 – L’aeroporto di Tripoli è uno dei più brutti mai visti in anni di viaggi tra Medioriente e Maghreb. Sicuramente in Africa subsahariana ce ne saranno altri, ma per la capitale di uno dei Paesi più ricchi del continente, è veramente un terribile biglietto da visita un aeroporto così squallido.
Ai libici però piace un sacco l’aeroporto se è da oltre un mese che stanno combattendo per prenderne il possesso. I miliziani di Zintan gli hanno messo gli occhi addosso appena entrati nella capitale nel 2011 e se lo sono tenuti ben stretti fino a quando è stato catturato dagli acerrimi nemici di Misurata.
Ora però è mezzo distrutto ed è stato pure devastato da un incendio. Così quelli di Misurata potranno usarlo per piantarci le tende e farci i picnic guardando i rottami dei velivoli. Comunque è una bella batosta per il generale Khalifa Haftar, alleato di Zintan, che proprio lo scorso aprile aveva iniziato una guerra personale contro il fronte islamista, capitanato appunto dalle milizie misuratine, con l”Operazione Dignità’.
Mentre continua la fuga di civili (più di 7mila le famiglie sfollate, oltre 50mila persone), scappati per evitare di restare coinvolti negli scontri, in città ci si interroga su chi sta effettuando da un paio di settimane bombardamenti aerei nel tentativo di fermare le katibe islamiste. Non l’esercito libico, che non ha piloti e caccia adatti per colpire target da alta quota e con una precisione millimetrica. Chi allora? Si apre il totoscommesse.
Il Capo di Stato maggiore libico, Abdulati al-Obeidi, ha detto che i raid compiuti nel primo bombardamento, avvenuto lunedì 18 agosto, erano stati compiuti con l’utilizzo di piccole bombe teleguidate e missili lanciati da un’altezza di circa sette/otto chilometri. Il 23 agosto un secondo bombardamento aereo, sempre diretto a colpire depositi di armi e strutture in mano alle brigate raggruppate sotto la sigla ‘Alba libica’. Il 24 un altro. Sempre aerei ‘non identificati’.
Italia e Francia smentiscono, l’Egitto pure, ma di sicuro le bombe non piovono da sole. Le formazioni filoislamiste accusano. Il governo intanto accusa a sua volta i filoislamisti di terrorismo. Ma che fine ha fatto il governo? Se ne sta rintanato a Tobruk. Bengasi è troppo pericolosa (il tiro al piccione su elementi governativi è all’ordine del giorno), Tripoli è un campo di guerra e le forze del generale Haftar sembrano proprio essere in difficoltà.
Ci vorrebbe un bel sindaco pugno di ferro alla Giuliani a Tripoli, giusto per mettere le teste calde al loro posto. Ah ma il sindaco è Mahdi al-Harati, ex rivoluzionario, ex braccio destro di Abdelhakim Belhadji, ex del Libyan Islamic Fighting Group. Harati, quello che ha guidato anche una brigata libica in Siria. Stamo messi proprio bene.
Proprio nei giorni scorsi un’amica che si occupa di migranti ha chiesto come si poteva aiutare un eritreo al quale hanno amputato la gamba per un incidente e che si trova a Sebha, nel sud del Paese, a continuare il suo viaggio per arrivare in Italia. Frontiere chiuse, nessun ordinamento statale, l’Onu in pratica ha levato le tende. Per un migrante oggi, costretto a passare dalla Libia per arrivare clandestinamente in Italia, l’inferno è raddoppiato.
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