Agrigento, tra Arabia e Normadia

 Città tra due mondi, che è stata di Empedocle e sarà di Pirandello

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/09/az.jpg[/author_image] [author_info]di Tano Siracusa. Dagli anni ’80 prova a fare informazione raccontando la quotidianità in molti paesi del sud del mondo. Con la fotografia soprattutto, ma negli ultimi anni anche con le parole e con i video. http://www.tanosiracusa.it[/author_info] [/author]

14 settembre 2014 – Sulla collina occidentale sorge la città araba, poi passata ai normanni e poi ai Chiaramonte, la grande famiglia che dominò sull’intera Sicilia occidentale nel XIV secolo. Alla fine del secolo successivo, con la cacciata degli ebrei da parte delle cattolicissime autorità spagnole, ha inizio il declino della città che era stata di Empedocle e che sarà di Pirandello.

E’ questa la tesi di Settimio Biondi, il più grande storico di Agrigento, che descrive nei secoli successivi una città infeudata alla Chiesa, da essa protetta e assistita, dove il trauma dell’Unità  viene sostanzialmente riassorbito dai vecchi equlibri sociali e la presenza della Chiesa, per quanto spossesstata dei suoi beni, continua ad esercitarsi prima, durante e soprattutto dopo il fascismo, con il lungo strapotere democristiano.

La crisi cominciata nel 1494, la decadenza della città sonnacchiosa e pretesca, della Girgenti descritta ancora da Pirandello, continua fino ad oggi, dopo la brusca discontinuità che l’ha solo riformulata nel secondo dopoguerra.

La cittaduzza che si arrampica fra cortili e scalinate verso la cattedrale normanna di S. Gerlando, l’intera collina occidentale della città murata da dove si contemplava la valle dei templi e il mare, viene circondata a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso da una barriera di palazzoni in cemento armato, in violazione delle  norme urbanistiche, in un’orgia di cemento e affari che nessuno in città denuncia.

E’ l’irruzione di una modernità di scarto, pilotata da una classe dirigente di provenienza piccolo borghese e imprenditoriale che sostituisce il vecchio notabilato e che sconvolge in quindici anni uno dei più bei territori del mediterraneo. Fino a quando, nel luglio del 1966, una imponente frana   travolge decine dei nuovi palazzi, investe il quartiere arabo di Rabato, fuori le mura chiaramontane, e il sacco edilizio di Agrigento diventa un caso nazionale.

 


Il decreto ministeriale Gui-Mancini istituisce subito dopo un articolato regime vincolistico, con una vasta zona di inedificabilità assoluta attorno alla valle dei templi.

Nel 1978 il piano regolatore generale disegna una città ‘stellare’, cioè una città di periferie attorno a un centro che si svuota di abitanti e di servizi. Il territorio urbanizzato che ne risulta è vastissimo, da metropoli, il rapporto fra abitanti e vani a disposizione fra i più alti d’Italia come il consumo di suolo. Con servizi pubblici di traporto vecchi, scomodi, imprevedibili negli orari e solo diurni: una città di periferie con un centro agonizzante, collegati da un flusso ininterrotto di automobili che percorrono faraonici ponti, tunnel, cavalcavie, montagne di danaro pubblico che ha aggiunto la sua impronta elefantiaca all’occupazione e al dissesto del territorio operato dai cittadini e dall’unica industria locale, quella del cemento.

Agli inizi degli anni ’90 il piano particolareggiato per il centro storico propone il taglio dei piani alti dei palazzoni. Il progettista, l’ingegnere Rizzo, avrebbe anni dopo dichiarato di essere stato ispirato da Argan, che in una visita ad Agrigento nel 1985 aveva denunciato lo sfregio dei ‘tolli’. Quel punto del piano particolareggiato è stato il primo a venire liquidato, accolto con sgomento, sdegno e incredulità degli agrigentini. Fra i suoi oppositori più accaniti Giuseppe Arnone, in quegli anni   dirigente nazionale di Legambiente e indiscusso leader cittadino del fronte ambientalista.

Quello è stato forse l’ultimo treno che la città ha perso verso una forma della modernità meno  distruttiva e sprezzante nei confronti di una eredità millenaria.

Dalla frana è passato quasi mezzo secolo e la città continua a crollare. Crollano palazzi storici e povere vecchie case abbandonate, minaccia di crollare la Cattedrale per una enorme frana che insidia il costone della collina su cui sorge. Hanno rischiato di crollare pochi mesi fa due palazzi nel viale della Vittoria, il viale della buona borghesia, evacuati dopo essere stati investiti da una enorme lastra di cemento che avrebbe dovuto puntellare ciò che rimane della tufacea collina orientale della città, interamenete urbanizzata nel secondo dopoguerra. Poteva essere una tragedia: quella mattina sono esplose le vetrine degli eleganti negozi a pianoterra. Da allora centinaia di persone sono sfollate e alcuni in città giurano che è s. Calò, il santo nero, a proteggere gli abitanti dalle catastrofi da loro stessi provocate.

Ci sono tantissimi immigrati ad Agrigento, in numero crescente, molti in transito, ma molti che vi abitano orami da anni. E’ grazie a loro che interi quartieri del centro storico sono ancora abitati. C’è un arivescovo, Franco Montenegro, che spesso si fa portavoce dei loro bisogni, del loro dramma, e che potrebbe essere stato l’ispiratore della visita del Papa a Lampedusa. C’è un sindaco che è stato costretto a dimettersi per guai giudizari e una tradizione di politici nazionali (La Loggia, Mannino, Alfano), di grandi avvocati, di scrittori famosi (anche se Sciascia e Camilleri sono di Racalmuto e Porto Empedocle, e il più grande, misconosciuto, scrittore della città è Settimio Biondi). Ci sono cittadini, anche qualche ventenne o trentenne non ancora emigrato, che danno vita ad interventi di recupero urbano in centro storico, di animazione culturale, e uno scollamento fra queste esperienze e i circuiti della politica.

Ma soprattutto c’è la città con la fisicità dei suoi luoghi, un paesaggio fra i più contrastati e disarmonici del mediterraneo, che pare abbia entusiasmato un urbanista scandinavo di passaggio: qui c’è tutto, avrebbe sostenuto.

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C’è il pochissimo che rimane di un bosco e di una spiaggia di dune, distrutti dalla insipienza, dal dilettantismo e dall’irresponsabilità degli amministratori che agli inizi degli anni ‘70 costruiscono un lungomare ‘riminese’ non sulla terraferma, ma sul mare. Il disastro che ne è derivato sul tratto di costa a levante era facilmente prevedibile.

Ci sono i templi dorici in una valle dove sono state censite circa cinquecento costruzioni abusive nella zona di ineduficabilità assoluta, abitazioni non sanabili.

C’è la poderosa quinta di cemento armato a nascondere la vecchia città in tufo che si sfarina.

E ancora, osservati da qualche balcone del centro storico, la valle e il mare: da qualche scorcio dove la continuità visiva fra la città classica e quella medievale non è stata spezzata dal diaframma dei palazzoni, dal segno sconcio della modernità. Inavvertito da amministratori ed amministrati, da politici e cittadini.

Eppure i B&B del centro storico sono pieni, come i ristorantini in via Atenea, il salotto della città una volta, dove più della metà dei negozi sono chiusi. I turisti che non viaggiano intruppati si fermano qualche giorno, si arrampicano fino alla cattedrale, smarrendosi nel dedalo di salite dove non ci sono indicazioni, nessuna segnaletica e pochissimi negozietti di generi alimentari, pochissimi bar. Anche gli immigrati per fare spesa devono prendere la macchina e andare nei supermercati o nel grande centro commerciale di Villa Seta, più vivcino a Porto Empedocle che ad Agrigento, ad un paio di chilometri dalla casa natale di Pirandello.

E’ quello ormai il centro della città. Quel sogno asettico di un consumismo divenuto mondo.

Fuori il cielo, le nuvole, il tufo dei templi e delle case di Rabato, il mare che cambia continuamente colore.

 

 

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