Lettera aperta a Federica Mogherini, nuovo rappresentante della politica estera dell’Unione Europea
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/io.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Di Rienzo. Concepito a Roma in un incontro occasionale il 21 aprile del 1978 è nato a Napoli il penultimo giorno dello stesso anno in quanto la madre aveva letto un noto libro di Oriana Fallaci. Questo lo ha appreso nel novembre del 2002 mentre contestava proprio la Fallaci a Firenze in occasione dell’Europa Social Forum. Da allora ha sviluppato una irrimediabile attrazione verso le contraddizioni. Caratteristica questa che lo ha portato, con penna o telecamera, a interessarsi di Medio Oriente e vertenze sindacali.[/author_info] [/author]
12 settembre 2014
Cara Lady Pesc,
Le scrivo perché la sua nomina suscita in noi sentimenti contrapposti. Da una parte il felice stupore di vedere una grossomodo coetanea (quindi una giovane se consideriamo il fatto che in Italia il baricentro lavorativo è posto in età geriatrica e, per di più, donna, laddove questo significa avere nella vita professionale qualche difficoltà in più); e dall’altra parte le perplessità di chi nella cosiddetta “generazione Erasmus” ha deciso di spendere parte delle propria formazione esistenziale e lavorativa in quelle zone che amiamo pensare come i confini del vecchio continente, inteso questo nell’accezione geografica più ristretta, quindi giuridica: Balcani, Medio Oriente, Maghreb.
Per di più, mi permetta di sottolinearlo, che ha deciso di farlo senza mai impugnare un’arma. Dato non secondario se considera che nell’era della “generazione Erasmus”, in alcuni luoghi dei territori prima citati, portavamo con noi il peso di una nazionalità ingombrante.
Spesso scomoda in quanto nostri connazionali erano anche loro nel medesimo luogo ma impegnati in missioni militari. Abbiamo avvertito su di noi, sulle relazioni che andavamo instaurando, l’ambiguità profonda di quello che entro i confini nazionali veniva raccontata come “guerra giusta”, mentre, laddove eravamo, puniva come in tutte le guerre i più deboli e i maggiormente esposti. In questo periodo, tra cooperanti e giornalisti, abbiamo visto diminuire enormemente la nostra agibilità, fisica come culturale.
Le scrivo perché lei oggi lavora da una scrivania per noi importante. Crediamo quanto mai indispensabile una politica estera europea. Seria ed autorevole, in grado di promuovere nel mondo i diritti universali dell’uomo. Un’azione diplomatica che ridimensioni i protagonismi nazionali, spesso legati a interessi commerciali e ad un approccio che manifesta residui di colonialismo.
Siamo europeisti, e abbiamo assistito alle ultime elezioni continentali con la preoccupazione radicata che a scontrarsi politicamente fossero due forme di scetticismo antieuropeista: quello che vuole in continente legato solo da patti economici e commerciali, quello che il continente non lo vuole legato nemmeno da patti economici e commerciali.
Vogliamo altro. Ci piace pensare a un’istituzione che a differenza degli Usa non vuole ambire ad essere sceriffo del mondo. Ci piace pensare ad un’istituzione che nel garantire la pace entro i propri confini confronti il proprio modello di democrazia e sviluppo, la propria storia contraddittoria come tutte le storie, con le culture e istituzioni confinanti. Ci piacerebbe pensare a un’Europa a servizio delle Nazioni Unite, propedeutica al programma kantiano di pace e governo universale.
Abbiamo, durante la nostra formazione, assistito a tutt’altro. Appartenenti anche noi alla “generazioni di Sebrenica” abbiamo assistito a quel genocidio come il risultato di una tensione di potenze mondali, e religiose, esercitato sull’ex Jugoslavia. Abbiamo visto l’Europa non pensare a nulla di meglio che a un protettorato non inclusivo per il Kossovo e a una nuova guerra contro la Serbia. Oggi, per la generazione che da quella guerra è nata direttamente, e per quella che la guerra ha vissuto, riteniamo capitali europee Sarajevo e Belgrado molto più che Roma, Parigi, Londra e Berlino.
Oggi vediamo il tentativo di pacificazione di paesi come la Libia e l’Iraq passare per l’armamento di fazioni impegnate nelle guerre civili. L’ossimoro, come il risultato, è sotto gli occhi di tutti.
Quando era alla Farnesina ha definito la guerra di Gaza come una “ostilità armata radicata nel tempo”. Anche i pellegrini che si recano per una sola volta nella vita tra Betlemme, Gerusalemme e Nazaret definiscono quello che si svela sotto gli occhi come occupazione militare. Ponga una presenza europea al valico di Rafah per tenerlo aperto. Già paghiamo da anni la missione Eubam – (European Union Border Assistance Mission presso il valico di Rafah), presenza di carabinieri su quella frontiera che di fatto non si verifica. Ponga uomini a garantire una pesca non figlia dell’embargo sul mare di Gaza e vedrà come le intenzioni belliche di Hamas andranno ridimensionandosi.
Cara Mrs. Pesc le scrivo per dirle che abbiamo bisogno di Europa e di popolo europeo. Che questo può formarsi solo nella risoluzione collettiva delle contraddizioni che caratterizzano il vecchio continente. Verrà di conseguenza l’elaborazione di una coscienza civile e allora di un popolo.
Ponga la centralità del suo operato, e quindi dell’Europa , lungo i confini. Lavori affinché non siano luoghi extragiudiziali dove poter compiere azioni non legali che non potrebbe fare in patria. Quelle che i luoghi comuni intenderebbero come periferia d’Europa sono territori dove si confrontano culture laiche e religiose, dove si innervano le differenze economiche e giuridiche, dove c’è un proliferare di diverse cittadinanze sempre più scarne di diritti. È al contempo il luogo fulcro della formazione di un popolo, senza il quale non ci sarebbe una cittadinanza europea. Li renda luoghi di confronto e inclusione. Li renda luoghi del diritto e dei diritti.
Da queste pagine la osserveremo con partecipazione. Siamo europei ed europeisti.