Why We Fight

Al Milano Film Festival il documentario di Eugene Jarecki indaga sulla politica militare degli Stati Uniti

 

di Antonio Marafioti
@Amarafioti

 

11 settembre 2014 – Sono passati nove anni dall’uscita di Why We Fight, il documentario di Eugene Jarecki insignito del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival. Eppure riguardarlo oggi alla rassegna milanese, categoria Colpe di Stato, fa un certo effetto. Nel 2005 gli Stati Uniti erano ancora guidati dalle scelte politiche di quello che, forse, si ricorderà come il peggiore presidente della loro storia; la crisi dei mutui subprime sarebbe scoppiata da lì a un anno; infine, Barack Obama, occupava ancora il seggio senatoriale dell’Illinois. C’è solo un dato che, da allora, e anche da molto prima, non è mai cambiato: gli States sono in guerra e continuano a occupare militarmente territori stranieri per rafforzare se stessi e l’élite economica del comparto bellico e petrolifero.

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È una tesi che subito dopo l’11 settembre 2001 è stata ripresa e sostenuta da scrittori, giornalisti e registi votati all’informazione indipendente. Solamente nel 2004 furono pubblicati Confessioni di un sicario dell’Economia il best seller dell’ex agente della Main, John Perkins, che ha fatto luce sul lavoro sporco dei contractors politici ingaggiati da Washington; e Fahrenheit 9/11, il documentario di Michael Moore, palma d’oro a Cannes nel 2004, al quale Why We Fight sembra ispirarsi molto.

L’originalità del lavoro di Jareki consiste nel tentativo di far luce su un sistema triangolare, equamente composto da militari, industriali e membri del Congresso, in cui tutti e tre i vertici si sostengono, più o meno illecitamente, pur di ottenere vantaggi reciproci. C’è una sostenibilità della sistematica violazione costituzionale basata sulla manipolazione delle notizie e della verità a danno del popolo statunitense.

È quanto temuto dall’ex presidente Dwight Eisenhower che nel suo storico discorso d’addio del 17 gennaio 1961 denunciò: “Dobbiamo guardarci, nei consigli di governo dalla ingiustificata influenza, volontaria o involontaria del complesso militar-industriale”. Why We Figth esalta queste parole alla luce della Storia e legittima la saggezza del generale a cinque stelle, eroe della Seconda Guerra, quando, cinquant’anni dopo, gli conferisce un’immagine profetica. Non è un mistero che il vecchio “Ike” fosse sconcertato dal numero di industriali che, dal conflitto in Corea fino alla crisi del Canale di Suez, entrarono a far la voce grossa dentro lo studio ovale.
Per molti il suo commiato alla nazione fu dettato da un mix di timore e disgusto nei confronti del potere che l’élite riusciva, e sarebbe riuscita, ad esercitare sulla politica. Poi ci fu il Vietnam e, fino all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, almeno un’altra cinquantina di guerre, golpe e deposizioni di capi di Stato e governo in cui gli Stati Uniti furono implicati in diverse aree del mondo.

Nessun inquilino della Casa Bianca ne fu escluso, semplicemente perché nessuno di essi fu abbastanza forte da impedire che la “vacca fosse munta”. Nel documentario, John McCain, senatore dell’Arizona e candidato presidente per il Gop nel 2008 contro Obama, ricorda come la dottrina Bush del post 11 settembre contemplasse attacchi preventivi in virtù di un riposizionamento geopolitico del Paese.

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George W. Bush e Dick Cheney

Le linee guida della dottrina Bush non rappresentarono altro che uno strumento politico a tutela del sistema di accaparramento e gestione delle riserve di petrolio all’estero. Da qui le guerre, le commesse a compagnie amiche e gli stanziamenti sempre ingenti alla voce Difesa che, da almeno un decennio, ha superato da sola la somma delle altre previste dal bilancio federale. Nel post 11/9 sarebbero stati i think tank e i big della corporatocrazia a dettarla agli uomini di George W.
Erano coloro che assemblavano le armi e tutelavano i pozzi ad avere un potere tale da permettere che, sostiene uno degli intervistati, “un appaltatore del governo diventasse vicepresidente”.

Ci sono tanti filmati d’archivio, ripresi dal lavoro di Jarecki, che ricordano il tempo in cui i membri dell’establishment e alcuni fra i più grandi media nazionali sostennero la strenua difesa di Dick Cheney e la “assoluta indipendenza” della sua carica di vicepresidente da quella di numero uno della Halliburton, multinazionale texana del petrolio, poi arricchitasi con le forniture delle truppe al fronte.

È stato calcolato che nei primi anni delle guerre Afghanistan e Iraq le commesse governative ottenute dalla Halliburton crebbero in maniera esponenziale e il patrimonio personale dello stesso Cheney passò da 1 a 70 milioni di dollari.
Il sistema si reggeva, allora come oggi, sulla disuguaglianza fra il complesso militar-industriale odiato da Eisenhower, e il resto dei cittadini. Come Wilton Sekzer, ex poliziotto del NYPD in pensione, colpito dalla morte del figlio negli attentati del World Trade Center. Come il ventitreenne William Solomon che decide di partire per il fronte per sfuggire all’indigenza. Gli altri civili intervistati, tra cui molti bambini, risponderanno al quesito “Perché combattiamo?” con frasi o parole di circostanza come “Democrazia”, “Libertà”, “Giustizia”. Una risposta, “siamo in guerra per ottenere una pace duratura”, ribadisce per l’ennesima volta la lezione su come un esiguo numero di persone possa circuire, annullare e rieducare a proprio vantaggio la coscienza civile di un intero popolo.

 

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