Un incontro, un viaggio, la magia di una città che è araba e mediterranea, europea e africana
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/09/az.jpg[/author_image] [author_info]di Tano Siracusa. Dagli anni ’80 prova a fare informazione raccontando la quotidianità in molti paesi del sud del mondo. Con la fotografia soprattutto, ma negli ultimi anni anche con le parole e con i video. http://www.tanosiracusa.it[/author_info] [/author]
1 ottobre 2014 – L’uomo se ne sta seduto all’interno della sala meno affollata del caffè, le cui vetrate si aprono su un’elegante piazzetta della città moderna. Sta leggendo un libro, di cui sottolinea alcune frasi, annotandone di sue ai bordi della pagina. Somiglia a Picasso, e sta leggendo Cent’anni di solitudine in una traduzione francese.
È rarissimo in Marocco vedere qualcuno che legge un libro in un luogo pubblico. Fra gli indicatori della crescita del Marocco moderno non figura quello di un significativo aumento dei lettori. È una delle segnalazioni più frequenti e preoccupate di scrittori e intellettuali.
Non è difficile iniziare una conversazione con uno sconosciuto da queste parti, e il lettore che somiglia a Picasso è un signore particolarmente gentile.
Lui è di Rabat e a Chaouen veniva da ragazzo, negli anni ’60, quando ancora non era stata scoperta dai primi yippies. Ci torna quasi ogni anno da allora, cercando adesso che è vecchio il ragazzo che è stato.
A volte, dice, mi sembra di incontrarlo, di riconoscerlo.
Preferisce il francese allo spagnolo, malgrado l’evidente impronta andalusa del nord del Marocco, e alla sua preferenza linguistica corrisponde anche una predilezione letteraria per gli scrittori francesi. Camus, Gilde, Sartre, un po’ meno Proust. Il romanzo di Marquez lo sta leggendo per la prima volta, e in francese.
Parla senza entusiasmo di Choukri, lo scrittore ‘maledetto’ di Tangeri, autore di Pane nudo. Dice che è stato Ben Jallun a tradurre il romanzo in francese e che la sua prima pubblicazione, nel 1973, è avvenuta in una traduzione inglese di Paul Bowles. (In effetti, in una recente intervista, Ben Jallun conferma che il testo di Choukri consisteva di una decina di foglietti e che la traduzione inglese raccoglieva un racconto orale dello scrittore di Tangeri).
A parere del vecchio lettore invaghito dei francesi, Choukri ha goduto una notorietà legata più alla sua esemplare biografia di marginale che alle sue qualità letterarie. Sostiene che il Marocco descritto nel romanzo, quello della strada, delle infanzie violentate dalla strada, delle vite bruciate nella strada, quel Marocco sgangherato e violento degli anni ’50, è un luogo comune. L’atteggiamento sembra un po’ quello che si aveva in Italia nei confronti del neorealismo, sui panni sporchi da non mostrare. Ma il Marocco cambia: Pane nudo, quando finalmente uscì in Marocco, venne sequestrato, e la censura è durata fino al 2000. Adesso i tre volumi della autobiografia di Coukri si trovano in arabo, in traduzione francese e spagnola, anche nelle piccole librerie della cittadina berbera e andalusa.
La Medina di Chefchoauen, una scheggia di Andalusia fra le montagne del Rif, è bianca e azzurra, raccolta dentro le mura, affastellata su se stessa. Inverosimile e plausibile come una invenzione di Esher, visionariamente scenografica, è animata da una vita quotidiana semplice e antica, che si ripete da quasi sette secoli fra le viuzze, i cortili, le scalinate e gli archi, le piazze teatrali e rustiche, dove la modernità è entrata nella sua versione ‘leggera’, internet e cellulari, lasciando fuori le mura medievali la modernità, inquinante e chiassosa, meccanica, del traffico automobilistico. I rumori e i suoni dentro la Medina sono soltanto le voci degli uomini e delle donne, dei bambini che giocano, di qualche carro, e le musiche che salgono dalle case, dai caffè, e invadono le strade, sinuose e iterative come i percorsi del piccolo labirinto.
A lui, al signore che assomiglia a Picasso, piace la vita semplice di Chaouen, le donne berbere che scendono dalla montagna a vendere per strada le loro patate, i pomodori, le verdure, gli ortaggi, che sono più buoni e costano meno che nelle botteghe. Gli piace tornare, osservare compiaciuto che il tempo non ha guastato troppo Chaouen, che lì a volte gli succede di sentirsi ancora un ragazzo.
Nella stanza dell’hotel non entra mai la donna berbera a fare le pulizie, e quando si fulmina l’unica lampadina che pende dal soffitto è inteso che spetta al cliente comprarne una nuova. Ma a modo suo è un hotel accogliente, costa 15 euro e dalla finestrella della stanza si vede la strada dove due volte la settimana vengono giù dalle montagne del Rif le donne berbere a fare mercato. Ma dalle montagne, soprattutto la sera, scendono in città anche i contadini che coltivano la marijuana e producono l’hashish. Lo vendono a chili, di eccellente qualità, ad un prezzo che sui mercati europei risulterà centuplicato.
Ma per M., il problema è soprattutto un altro. Come con il lettore di Marquez non è difficile fare conversazione per strada con M., che con la sua famiglia riesce a produrre cinque qualità diverse di hashish. Dipende dalla altitudine delle piantagioni spiega, mentre scruta il cielo con preoccupazione per l’eccessiva pioggia di questi giorni che rischia di danneggiare le piante. Da me, spiega, vengono italiani, francesi, spagnoli, stanno da noi alcuni alcuni giorni, poi comprano uno, due chili, anche di più.
Quarantenne, indossa un elegante djellaba, parla spagnolo, francese e arabo, come molti qui, ha toni e gesti garbati, gentili. In campagna lavora tutta la sua famiglia, ma non i bambini che vanno a scuola. Qui, spiega, il lavoro c’è, ma si lavora duro e si lavora bene. Quello che vendiamo però non è quello che poi viene venduto in Europa, dice. Noi vendiamo un prodotto di qualità che in Europa arriva tagliato, rovinato, noi vendiamo hashish e da voi arriva il ‘fumo’.
È questo, sembra, il suo dispiacere più grande. Non tanto il dislivello del prezzo fra l’acquisto dai produttori e la vendita ai consumatori nei mercati illegali dell’Europa, e illegali anche in Marocco, dove il consumo di hashish è vietato da leggi severe che ogni tanto scattano per un qualunque malcapitato – preferibilmente nel sud del paese, lontano dai luoghi della produzione – che per un etto di hashish va a finire in carcere e sui giornali. Poi l’hashish o il kif viene fumato di fatto liberamente, per strada e nei caffè a Chaouen o in certe zone della Medina di Tangeri.
Anche a M. piace Chaouen, la vita semplice, il silenzio per le strade, la vita poco cara, anche il freddo che fa d’inverno e il sole possente in aprile, perché ogni stagione ha la sua necessità e ha la sua bellezza. Lui non pensa di emigrare in Europa, non gli piace quello stile di vita, la frenesia consumistica, quell’ossessione per i danaro, le famiglie che si sfasciano. Ha i suoi crucci, le sue preoccupazioni, quel dispiacere, ma qui è contento della sua vita, del suo lavoro fatto bene.