Processo alle idee

Si è concluso il processo di due giorni a Ilham Tohti, l’intellettuale uiguro accusato di separatismo e detenuto da inizio anno. Il verdetto sarà comunicato la settimana prossima, ma il suo avvocato dice di prevedere una condanna a 10 anni. Tohti si è dichiarato innocente e ha rivendicato di avere sempre cercato il dialogo tra etnie. Dal mondo legale giungono molte denunce su come è stato condotto il procedimento penale

 

di Simone Pieranni, China Files

 

22 settembre 2014 – Le lezioni di Ilahm Tohti erano sempre piene di studenti. Uighuri, ma anche cinesi han e qualche straniero, impegnato in progetti di ricerca o per semplicità curiosità. La sua posizione, sulla regione autonoma del Xinjiang, l’avrei sempre classificata come moderata, indicando con questo termine un comune buon senso. Seppure critico sulle politiche etniche della Cina, Tohti ha sempre proposto un cambiamento, all’interno del frame politico cinese. Eppure nel momento in cui vari attentati hanno scosso la Cina, le sue lezioni, per Pechino, sono diventate pericolose.

 

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Ilahm Tohti

Oggi Ilham Tohti, 44 anni, è in prigione da gennaio ed è sotto processo. Per quanto quasi sconosciuto in Italia, il professor Tohti, “ha connessioni a ogni livello della società uigura. Allo stesso tempo, lui è il più importante rappresentante degli uiguri tra gli intellettuali cinesi”, ha detto Wang Lixiong, scrittore e attivista per i diritti delle minoranze, al Wall Street Journal. “E’ veramente prezioso”. Secondo i suoi avvocati ha ovviamente respinto l’ accusa di aver promosso la secessione dalla Cina del Xinjiang, la regione del nordovest del Paese patria della minoranza etnica degli uighuri, di lingua turcofona e di religione musulmana.

Come ricordano oggi i media internazionali, “quella di separatismo è una grave accusa in Cina, che può portare ad una pena detentiva che va dai 10 anni all’ergastolo, a volte anche la morte. Una volta che sono formalmente accusati, i sospetti criminali sono quasi sempre dichiarati colpevoli”.

Il processo si è aperto un paio di giorni fa a Urumqi, capitale del Xinjiang. Rispetto ad altri procedimenti giudiziari, anche rilevanti, è stato negato l’accesso all’aula a giornalisti stranieri e ai diplomatici degli Usa, Unione Europea, Regno Unito, Francia, Australia e Canada che avevano chiesto di assistere al processo. La corte, incaricata di arrivare ad una sentenza, contrariamente ad altri casi, anche piuttosto sensibili, come il processo a Bo Xilai, non ha comunicato nulla, neanche sui social media.

Tohti, che prima di essere arrestato insegnava all’ Università delle Minoranze di Pechino, è considerato un moderato che ha cercato invano di riportare la calma nel Xinjiang, sconvolto dal 2009 da violenze tra gli uighuri e gli immigrati cinesi, hanno riportato le agenzie.

Dopo il massacro di Urumqi, dove nel luglio 2009 persero la vita quasi 200 persone, centinaia di uighuri sono stati condannati a pesanti pene detentive e decine sono stati messi a morte. Gli avvocati di Tohti hanno sostenuto che le accuse si basano su «confessioni» estorte ad alcuni dei suoi studenti e su alcuni articoli che ha scritto sul suo blog. I legali hanno aggiunto che l’ annuncio della sentenza potrebbe essere rinviato di alcuni giorni.
Perché è importante, però, questo processo? Le ragioni sono molto chiare: in primo luogo evidenzia l’ottusità del potere politico cinese, teso a bloccare ogni voce che, seppure con toni moderati, contesta la politica di Pechino sulla regione autonoma del Xinjiang. Evento che conferma anche la totale impunità con cui Pechino si muove, nel silenzio di un Occidente, così pronto a parlare di Dalai Lama e Tibet, e totalmente all’oscuro delle ragioni dei musulmani dello Xinjiang.

E questo binomio, musulmani e Xinjiang, indica anche la scaltrezza di Pechino: portare a processo Tohti in un momento storico in cui l’Occidente identifica l’Islam con l’Isis.

Un altro fattore che non gioca a favore delle sorti di un professore brillante, splendido nelle sue relazioni umane e dalla produzione accademica di grande interesse, per tutti. E naturalmente c’è, latente, la questione irrisolta del Xinjiang. Periferia dell’Impero da controllare, in ogni modo, a qualsiasi costo.

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