Per risolvere la crisi sociale di Torpignattara non bastano più le denunce. C’è bisogno di forme di mutuo soccorso all’interno della comunità
di Stefano Rota – Associazione Transglobal
23 settembre 2014 – Quello che sta accadendo in questi giorni a Torpignattara può essere interpretato in diversi modi. Ci si può limitare all’indignazione, alla denuncia del degrado, prendendo magari la scorciatoia che porta a individuarne i responsabili in una parte di quella fetta di popolazione più visibile ed esposta a facili stereotipi, critiche e condanne, perché portatori di modelli di vita e di cultura (abitativi, religiosi, lavorativi, familiari) che appaiono immediatamente contrastanti con quello dominante, o presunto tale.
È facile, ma soprattutto rassicurante, stabilire un parallelo tra questa presenza e lo spaccio, l’insicurezza delle strade in determinati momenti del giorno o della notte. Individuare il “nemico”, soprattutto se connotato da caratteristiche immediatamente riconoscibili e stigmatizzabili, è sempre stato il mezzo più facile per unire coloro che non ne sono portatori, per stabilire un confine netto tra un “noi” e un “loro”, per sentirsi manlevati da qualunque tipo di responsabilità.
Detto questo, non si intende assolutamente dire che le denunce presentate dal Comitato di quartiere di Torpignattara siano infondate. Questo degrado esiste, è reale. Tutti i cittadini del quartiere ci fanno i conti quotidianamente, siano essi di origine italiana, bangladese, cinese, o quel che si vuole.
Il problema sorge, a Torpignattara a Roma, a Kreuzberg a Berlino, a Lewisham a Londra, nelle banlieue parigine, quando si cerca di leggere il fenomeno attraverso uno sguardo critico, che metta in relazione la composizione delle metropoli europee (le “ex metropoli colonialiste”, intendendo con questo termine l’area politica e socio geografica che, nel periodo coloniale, ha costituito il “centro” dell’ex impero colonialista, quindi l’Europa nel suo complesso, contrapposta alla “periferia”, gli ex paesi colonizzati) con i cambiamenti intercorsi negli ultimi vent’anni, in particolare, con la forma globale assunta dal capitalismo contemporaneo e i movimenti, le ricomposizioni che ne sono conseguiti.
In una frase, si può dire che la “periferia” irrompe al “centro”, portandosi con essa una ricchezza, una varietà di culture, di stili di vita spesso irriducibili al modello dominante, non propense al loro assoggettamento. Ne emergono spazi connotati da striature, descritti da “confini” invisibili alle carte geografiche che rappresentano le aree urbane, ma percepiti come tali dalle persone che li abitano.
Ma i confini, come sempre accade, possono dividere e mettere in contatto, allo stesso tempo. Nella strade di Brixton e sulle t-shirt indossate dai giovani black british negli anni ’80 campeggiava una scritta: “we are here because you were there”. Si può facilmente obiettare che l’Italia non ha mai colonizzato il Bangladesh, così come la Germania non è mai stata in Turchia. Ma è l’Europa intera a essere percepita come “centro” e le nuove aree di irruzione dalla “periferia” si stanno estendendo a est, interessando sempre più Polonia e Romania. Questo deve essere considerato un dato di fatto ineludibile, da cui non si può tornare indietro.
Se questo è il contesto generale, la crisi economico-finanziaria degli ultimi otto anni non ha fatto altro che acuire e amplificare situazioni di disagio, l’esplosione di problematiche e conflitti, a cui un welfare irrisorio e amministrazioni territoriali incapaci o troppo occupate in altre aree e settori non sono riuscite minimamente a prendere in considerazione.
Circolano nuove sostanze stupefacenti, lo spaccio di quelle tradizionali si espande, la cosiddetta “marginalità” inizia a mostrarsi in ambiti, da cui era tradizionalmente esclusa, o quantomeno contenuta. Si cominciano a vedere cittadini di origine cinese che hanno perso il lavoro e con esso tutto il resto: chi l’avrebbe mai detto, abituati come siamo a vedere quella cinese come una comunità mediamente benestante, o comunque scarsamente conosciuta? Cosa accadrà quando, da pochi casi singoli oggi visibili, questo fenomeno emergerà in tutta la sua ampiezza, con tutte le conseguenze che si porterà dietro? Le connotazioni del “nemico” cambieranno, si amplieranno?
È già stato detto, ma lo si vuole ribadire: le preoccupazione mostrate dal Comitato di quartiere di Torpignattara sono tutt’altro che infondate. Vanno, però, individuate sobriamente le cause, le responsabilità e, quindi, vanno cercate soluzioni con maggiore consapevolezza di qual è il contesto in cui oggi viviamo.
Non possiamo permetterci che altri ragazzi vengano uccisi. Non possiamo permettere che gli amanti dell’odio vadano di fronte alle scuole (da cui sono stati immediatamente allontananti dalle mamme stesse), o dove si sta svolgendo una festa che vede la partecipazione di migliaia di persone, con l’unico obiettivo di provocare e cercare di acuire tensioni che la storia e la cultura di Torpignattara da sempre rifiuta. Vanno recuperati spazi di socialità condivisa, vanno create forme di mutuo soccorso che, a tutti i livelli, sopperiscano alle carenze croniche di un welfare che, tradizionalmente, esclude più che includere. Torpignattara può rappresentare un importante laboratorio in questo senso, a cui tutti possono e devono dare il proprio contributo.
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