Se ne parla tanto, ormai quasi ogni giorno. Si parla di Milano, dell’altra Milano. La città dell’edilizia popolare, delle case fatiscenti, dell’emergenza continua, della piccola e grande criminalità. Si parla di sfratti, di occupazioni degli alloggi, della rabbia degli abitanti, delle istituzioni che troppo spesso non qui non si vedono e non si sentono. Quartieri difficili, anche da raccontare. Per capirci un poco di più ho iniziato a girare per quei quartieri, a guardarmi intorno, a incontrare persone
Testo e foto di Teresa Sala
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23 ottobre 2014 – Arrivo nel quartiere San Siro una mattina grigia. L’autobus mi lascia in piazza Selinunte, il centro del quadrilatero che identifica il quartiere popolare. Qui si affacciano le principali attività commerciali: soprattutto bar; in mezzo alla piazza, sotto la grande torre della centralina del riscaldamento, ci sono i giochi per i bambini, le panchine per le mamme o gli anziani e il campo da basket. La prima cosa che mi colpisce è che non sembra un quartiere popolare. Qui non ci sono palazzoni di dieci o quindici piani, come a Gratosoglio, attorno non c’è il Nulla fatto di campi e autostrade che circonda Ponte Lambro, non è geograficamente isolato, ai margini della città, come Quarto Oggiaro. No, San Siro è un quartiere centrale, appena fuori dalla circonvallazione esterna, a due passi dallo stadio Meazza e da piazzale Lotto. Un quadrato geometrico di vie perfettamente integrato nel tessuto urbano. No, San Siro con le sue case a pochi piani e gli ampi cortili, con i suoi viali alberati, le panchine e i bar non si adatta all’immagine stereotipata del quartiere popolare degradato e disagiato. Non subito almeno.
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“Tieni conto che questo è un quartiere che ha tutto. C’è la metropolitana, c’è tutto!” Mi dice Lucia mentre si accende una sigaretta. “Vai a parlare con la gente. Ti diranno tutti che il problema di questo quartiere è l’abusivismo.”
Quando arrivo a San Siro mi dicono che se voglio sapere qualcosa di quello che sta accadendo qui devo parlare con Lucia. La trovo al Comitato di Quartiere, un’associazione che ha contribuito a fondare vent’anni fa e che si occupa di combattere il degrado del quartiere.
Lucia ha ottant’anni, uno sguardo vispo e la lingua tagliente. Non risparmia nessuno con le sue critiche: le istituzioni, i sindacati, gli occupanti, gli stranieri che sono sempre più numerosi qui, gli abitanti del quartiere che non prendono posizione.
Non puoi parlare con lei per cinque minuti senza che inizi a squillare uno dei suoi due cellulari. Tanti in quartiere hanno il suo numero e lei ha quello di tutte le istituzioni del territorio. Si dice che Pisapia, il giorno dopo aver vinto le elezioni, sia venuto qui, a San Siro, da Lucia e dal Comitato di Quartiere. Ma oggi è meglio non parlarne con lei: è come aprire il vaso di Pandora.
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Dopo vent’anni di governi di destra, con Pisapia finalmente Milano sembrava voler cambiare strada. O almeno loro ci avevano creduto: non si aspettavano certo la bacchetta magica che da un giorno all’altro avrebbe messo fine ai problemi del quartiere, però speravano in qualcosa di più, in un’attenzione maggiore.
“Io sono una donna di sinistra, lo sono sempre stata. Però è stata una grossa delusione. Ma non solo per noi, ma per tutti i comitati di quartiere di Milano.” Affianco a Lucia c’è Giulia, sua nipote. Venticinque anni di energia e voglia di fare. È entrata nel comitato pochi mesi fa da quando è andata a vivere con la nonna, dopo qualche anno passato all’estero. Anche Giulia non ha problemi ha dirti quello che pensa di questa situazione.
“In vent’anni la situazione è sempre peggiorata. Il problema non sono solo gli stranieri. Questo quartiere è diventato così per via delle istituzioni, ma anche per colpa nostro, cioè dei cittadini che contribuiscono a creare il degrado, che non hanno rispetto delle cose”.
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Vent’anni fa il degrado riguardava le condizioni degli immobili, che da anni non ricevevano la dovuta manutenzione. Ora metà delle case è stata risistemata, l’altra ha l’intonaco che cade a pezzi. Diversi palazzi sono puntellati con i ponteggi perché hanno dei danni strutturali. Le impalcature rimango lì, per anni, in attesa che qualcuno decida di risolvere il problema.
Secondo Lucia e il comitato oggi il problema è l’occupazione abusiva delle case. Il fenomeno non è nuovo, soprattutto nei quartieri popolari. Quello che è cambiato, dicono, è che negli anni, affianco alle occupazioni spontanee, si è sviluppato un racket, gestito dalle organizzazioni criminali. A questo traffico si lega anche lo spaccio di droga.
Ma non dovrebbe essere l’azienda che gestisce la case popolari a vigilare su tutto questo?
“Per quello che fa Aler potrebbe chiudere domani mattina, anzi sta già chiudendo.” Mi dice Lucia. Da quando è commissariata Aler è soltanto peggiorata, la riorganizzazione sembra una scusa per non fare più nulla. Se l’inquilino ha un problema (per esempio le infiltrazioni d’acqua, non funziona il citofono o l’ascensore), chiamare Aler non serve, perché non fa più nulla.
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Provo a chiedere se ci sono mai stati dei casi di occupazione in cui sono state d’accordo, in cui hanno approvato. Insomma non c’è mai un’eccezione alla regola? Giulia mi dice che il problema è proprio questo: “Io conosco delle persone che hanno occupato e che mi hanno raccontato la loro storia. Ci sono delle realtà in cui la gente non ha davvero nessuna alternativa. Poi pensi, Aler a Milano lascia gli alloggi sfitti da più di vent’anni. Allora occupo. E cosa gli puoi dire? A me va anche bene, però poi devi cercare di metterti in regola, di pagare l’affitto e le spese condominiali. Invece molti se ne approfittano, si allacciano al contatore degli altri, delle persone anziane, che qui sono la maggior parte, e che magari hanno la pensione minima. E cosa fai? La guerra dei poveri. La linea della giustizia è sottilissima, non è così facile capire chi ha ragione e chi ha torto.”
Come si fa a capire? In un quartiere che conta circa undicimila abitanti come fai a fare giustizia? Ognuno ha la sua storia, le sue esigenze, i suoi problemi, che entrano in conflitto con quelli degli altri. Giulia taglia corto: “Qui bisognerebbe solo che Aler facesse il proprio lavoro, e basta.”
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