A Babbo Natale vorrei chiedere due regali da mettere sotto l’albero. La prima è una tregua in Siria. Ma una vera. La seconda è una tregua in Libia. Di tregue ne servirebbero anche in altri Paesi, ma questi Paesi io seguo ogni giorno e a questi, per differenti motivi, sono attaccato. In entrambi ho degli amici o persone che sono state gentili con me. Qualcuno che mi ha aperto una casa e mi ha dato da dormire e da mangiare. Qualcuno che mi scrive o a cui io scrivo.
Una casa che vorrei ricordarmi questo Natale è quella dove io e Elio ci trovammo per rompere il digiuno durante i combattimenti tra le forze del regime e quelle ribelli a Tripoli, nel 2011. Era agosto ed eravamo in pieno Ramadan. Alla rottura del digiuno venimmo invitati in casa di amici a mangiare e bere.
C’era anche un ragazzo tetraplegico, Mohamed. Stava sdraiato su dei cuscini. Lo imboccavano e accudivano tutti con amore. Rideva sempre. La stessa sera, mentre era accompagnato in carrozzina in giro per il quartiere, venne ucciso accidentalmente da un colpo di Kalashnikov sparato da un suo amico. Non ho mai visto così tanta gente piangere a un funerale.
La seconda casa è quella di una vigilia di Natale passata in una stanza d’albergo a Tripoli, insieme a Elio Colavolpe e a quel matto di Erik Ravelo, in una camera d’albergo con una bottiglia di Vodka presa al mercato nero e costata ben 100 dollari, un salamino e un pezzo di formaggio. Una delle più belle vigilie. E poi c’è la casa di Abnour, ad Hayan, in Siria. Ci sono stato due volte, in due viaggi a distanza uno un mese dall’altro.
Mi ricordo la marmellata di rose, il formaggio, i peperoncini. Una sera provammo a fare un piatto di pasta come la facciamo noi. Niente da fare, lo spaghetto da avvolgere intorno alla forchetta e tirare su con veloce risucchio era cosa troppo insormontabile per i nostri ospiti. In quella casa ho trovato Siria, la mia gattina. Me l’hanno portata gli abitanti del villaggio, dentro un sacchetto e addobbata con un campanellino d’ottone che pesava più di lei. Quando la sera arrivavano i colpi di artiglieria stavamo tutti sotto il tramezzo principale della casa, convinti che avrebbe improbabilmente salvato le nostre vite se un colpo avesse centrato l’abitazione.
Questo Natale lo passerò a Milano. Siria è qui a casa con me adesso, me la sono portata in Italia passando il confine turco con lei dentro una tasca, e ogni volta che la guardo penso a quel gatto che ho visto saltellare con una zampa maciullata in mezzo alle rovine e che Elio trovò morto il giorno dopo. Penso ad Abnour e alla sua famiglia e ad un altro inverno passato al freddo senza riscaldamento.
Penso a tutti i siriani che muoiono ogni giorno e a quelli che ho visto morire, ai bambini che non conoscono il Natale e non sanno neanche cosa sia svegliarsi con una casa piena di giocattoli il 25 dicembre. Se esistesse un Babbo Natale islamico gli manderei una letterina per chiedergli che fine ha fatto. Se è stato sequestrato, torturato nelle carceri del regime, decapitato da uno dell’Isis o giustiziato a un posto di blocco. Ovviamente Babbo Natale detto anche Santa Klaus non esiste.
Anche se molti ci credono, è una invenzione, così dicono. Manco io ci credo, anche se mi piacerebbe ancora crederci come mi piacerebbe ancora credere che magicamente, il 25 dicembre, sotto uno dei pochi alberi ancora in piedi ad Aleppo o in qualsiasi altro remoto posto del pianeta dove c’è qualcuno che sta tirando un grilletto per ammazzare o per non essere ammazzato, si trovasse un pacco con un bel nastro rosso, una bibita e un dolce. Una tregua come nel Natale del 1914 sul Fronte Occidentale.
Per restare umani. Un poco almeno.
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