Un video reportage tra Turchia, Siria ed Iraq per capire che la questione curda va ben oltre la lotta all’ISIS
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/12/Lorenzo-Giroffi-small.jpg[/author_image] [author_info]di Lorenzo Giroffi. Vengo da un piccolo paese in provincia di Caserta. Mi perdo spesso in chi resiste e provo a spiarli. “Con-fine edizione” ha pubblicato il mio romanzo “Visioni Meccaniche” e “First Line Press” il reportage “Vene Kosovare”. Realizzo speciali televisivi per RAI e Sky (Italia), RSI (Svizzera), RTL (Germania), seguendo pezzi di rivoluzioni in Medio Oriente, malaffare nel Sud Italia, periferie londinesi e gestione dell’acqua. Dal documentario “My name is Kurdistan” a gennaio uscirà il libro “Il mio nome è Kuridstan” edito da “Villaggio Maori”. Nel 2015 “Baldini e Castoldi” pubblicherà miei racconti dalle prime linee del conflitto nel Donbass.[/author_info] [/author]
28 dicembre 2014 – Un viaggio di un anno fa, per capire che la quesitone curda viene da lontano e non è solo lotta all’ISIS. Massificare il Kurdistan nel semplice supporto dell’aviazione statunitense ai Peshmerga, per contrastare un nemico comunue, non fa bene ad una battaglia che si muove da svariati angoli. Il documentario prova a seguire tutti i fili della “questione curda”.
“Mi chiamo Kurdistan” è il frutto di un viaggio che ha coperto tre delle quattro regioni del Kurdistan. Il primo incontro che ho avuto e è stato quello anche più complicato da organizzare: con i guerriglieri del Pkk (partito curdo dei lavoratori). Loro presidiano Qandil, nel nord dell’Iraq, luogo dei loro combattimenti. Il documentario qui può raccontare le considerazioni personali e le visioni politiche di chi ha combattuto contro l’esercito turco, ma anche pareri strategici sulla crisi dei negoziati che avevano contemplato un cessate il fuoco con Ankara.
I chilometri percorsi da “Mi chiamo Kurdistan” restano nel sud del Kurdistan, appunto nord Iraq, ma uscendo dai nomi in codice e dai posti di blocco da aggirare per incontrare la guerriglia. Lo scenario diventa quello della guerra civile siriana, tramite i profughi, gli spaventati, i diseredati dalla vita nel proprio Paese. Interviste ed immagini descrivono i campi profughi per siriani, moltissimi di loro curdi, e la politica della regione autonoma curda irachena, che è l’unica a poter godere di un riconoscimento amministrativo, con tanto di Parlamento. In questa zona le infiltrazioni dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) stanno minando la stabilità dell’area, che derivava in particolar modo dalle grosse risorse economiche e da un controllo militare dell’esercito curdo iracheno (Peshmerga).
Il documentario si ritrova poi lungo il confine turco siriano, nella città simbolo della divisione coloniale subìta dai curdi: Nusaybin/Qamishlo. Curdi della città presente in Turchia (Nusaybin) vogliosi di aiutare il proprio popolo che invece si trova nei confini siriani (Qamishlo), alle prese con un’autorganizzazione delle proprie strutture, ma comunque all’interno di uno scenario di guerra, fatto di attacchi ed intimidazioni. Aiuti impediti dalla recente costruzione di un muro che divide le due città. Il viaggio si conclude poi a Diyarbakır, capitale del Kurdistan turco, dove, per strada, tre amici raccontano quanto, anche per le categorie lavorative che rappresentano (un giornalista e due avvocati), la lotta curda abbia inciso sulle proprie esistenze e quanto facciano ancora breccia le speranze delle trattative avviate con il Governo turco, arenatesi per insoddisfazioni reciproche.
Per riconoscere geograficamente il Kurdistan bisogna per forza di cose individuare il territorio che abbraccia gli Stati di Iraq, Turchia, Siria e Iran. Il popolo curdo è stato diviso in particolar modo dopo la Prima Guerra Mondiale con gli accordi di Sèvres, che hanno impedito la creazione di un unico Stato. Sono circa 40 milioni i curdi nei vari Paesi.
In Turchia, alcuni dei curdi presenti nell’area da più di 30 anni hanno intrapreso la lotta armata, con il Pkk, partito curdo dei lavoratori, ritenuto illegale, contro l’esercito turco, per rivendicare il riconoscimento della propria identità. Il conflitto ha causato circa 40.000 morti. Nel 2013 è iniziata una trattativa per il cessate il fuoco tra il Pkk, su indicazioni del leader storico Abdullah Ocalan, in carcere d’isolamento, ed il Governo turco, con il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, ma il tutto sembra essersi arenato. In Siria, dopo la rivoluzione che è sfociata in guerra, i curdi dell’area (Rojava) hanno provato ad auto-organizzarsi nella propria società, con la costruzione di nuove istituzioni come ospedali e scuole. I curdi in Siria hanno raggiunto un’emancipazione dal regime di Bashar al-Assad (precedentemente la dittatura ad alcuni curdi non riconosceva neanche carta d’identità, servizio sanitario e scolastico).
In Iran nel 1946 c’è stata una Repubblica curda, piccola parentesi, prima di una dura repressione ai danni dei curdi iraniani. Nella storia contemporanea, seppur tra tante difficoltà, ci sono state aperture ai curdi dell’area, infatti la lingua curda può essere usata. In Iraq invece, dopo anni di lotte contro il regime di Saddam Hussein, i curdi hanno ottenuto la gestione di una propria regione autonoma e di un Parlamento proprio, che si coordina con quello di Baghdad. Recentemente i problemi nascono dall’avanzata nell’are dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante).
Il Kurdistan toccato dal documentario “Mi chiamo Kurdistan” è comunque un puzzlecui mancano ancora molte tessere: una guerra che per assurdo ha dato un’opportunità ai curdi presenti in Siria, perché loro possono finalmente staccarsi da un regime che ha negato per anni la loro identità; un cessate il fuoco che poteva creare nuove strade per un dialogo al momento sembra non soddisfare nessuno; nel mezzo una regione, quella curda irachena, che è l’unica autonoma del Kurdistan, ricca economicamente, che però non sembra rappresentare ancora un faro per i diritti dei curdi.
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