Figghiuzza, ah figghiuzza! Fratuzzu! Mariteddu!

Proprio in questi giorni, nel 1908, un terremoto colpiva Messina e Reggio Calabria. A descrivere la devastazione, i ritardi nei soccorsi e la reazione dei cittadini fu Giovanni Cena, con il reportage Lungo le rive della morte

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/Andrea-Cardoni.jpg[/author_image] [author_info]di Andrea Cardoni, @andrecardoni. Andrea Cardoni è responsabile comunicazione Anpas Nazionale. Ha pensato e raccontato, con video, foto e cose scritte, storie e tante care cose dei villaggi rurali della Tanzania, dei terremoti dall’Aquila all’Emilia, di un partigiano che ha più di 100 anni che si chiama Garibaldo e di suo nonno Remo.[/author_info] [/author]

29 dicembre 2014 – «Torneremo a cuor leggero nella nostra solita vita, alternazione di processi passionali, di elezioni politiche annullate, di vittorie sportive, di fabbricazioni monumentali interminabili, di esposizioni di cartapesta?». Finisce così Lungo le rive della morte, un esempio attuale nel linguaggio e nel contenuto, di giornalismo narrativo sul terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908, scritto e fotografato (con una Kodak) da Giovanni Cena, scrittore piemontese nato nel 1870 da una famiglia di tessitori che dedicò la sua vita al racconto e all’istruzione delle comunità povere (nell’Agro Pontino) o colpite da un terremoto (in Abruzzo all’indomani del sisma di Avezzano).

«Le parole sono esperienze, e questa è una esperienza nuova dell’umanità (…) Racconto quello che ho veduto, giorno per giorno, con sincerità», scrive Cena all’inizio del suo reportage, pubblicato il 16 gennaio 1909 sulla rivista Nuova Antologia. Un pezzo nella storia del giornalismo ripreso poi da Ugo Gregoretti e che è diventato un episodio del film La scossa presentato al cinema di Venezia nel 2011, ma mai proiettato.

Un reportage che inizia il 29 dicembre da Roma e lungo dieci giorni dove Cena racconta in prima persona i sopravvissuti, gli odori dei cimiteri abbandonati, il cioccolato condensato che i medici inglesi danno ai feriti, i paesaggi che attraversa nei luoghi della catastrofe, dalla Calabria alla Sicilia. Le vittime furono circa 80.000 soltanto a Messina su una popolazione di circa 140.000 abitanti. A Reggio Calabria ci furono circa 15.000 morti su una popolazione di 45.000 abitanti.

 

Viale San Martino a Messina

Viale San Martino, Messina – Giovanni Cena

 

Domenica 27 dicembre al teatro Vittoria di Messina va in scena l’Aida. Poche ore dopo, alle 5.20 «accade la scossa formidabile», come la descrive Cena. Subito dopo un’onda di maremoto arriva sulle due coste. Alle ore 17.25 il comandante del torpediniere italiano Spica tramsette un telegramma indirizzato al presidente del Consiglio Giovanni Giolitti: «Urgono soccorsi per sgombro. Vettovagliamento assistenza feriti. Ogni aiuto sarà insufficiente».

 

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Il racconto di Cena restituisce in presa diretta i paesaggio, i ritardi dei soccorsi («Finalmente lo Stato italiano al settimo giorno ha ritrovato questo lembo d’Italia, tagliato fuori del mondo»), treni pieni di viveri mai arrivati, la carenza di acqua, di medici e di infermieri, la differenza tra la risonanza dei danni a Messina e i silenzi sui danni sulla costa calabrese («La catastrofe di Messina attirerà l’attenzione d’Italia e del mondo intero, la costa calabrese è interamente dimenticata»), i dolori dei sopravvissuti, la mancanza di farina, materassi e dei farmaci, i gemiti dei sepolti vivi che «per tre giorni continuarono, sempre più fiochi, lungo le vie ingombre di rottami. E la vita non è spenta del tutto là sotto…».

Un viaggio in treno, a piedi, in nave che tocca Palmi, Seminara, Gioia Tauro, Villa San Giovanni, Messina, Bagnara, Catania dove Cena restituisce al lettore il paesaggio («La massa delle case è schiacciata nel mezzo come se un piede di titano fosse passato sul piccolo formicaio di uomini») e i problemi reali di chi prestava soccorso nelle prime ore, come estrarre persone vive, ma senza vestiti. A Palmi l’esercito si chiede: «A chi tocca seppellire i cadaveri? Al genio o alla fanteria?».

Nelle ricostruzioni storiografiche il ritardo dei soccorsi viene generalemente raccontato dalle carte e dai tentennamenti del Governo Giolitti. Cena invece descrive il punto di vista dei superstiti di Villa San Giovanni: «I primi giorni furono un supplizio inumano. Passavano navi italiane, si gridava, si tiravano fucilate: esse proseguivano. Era l’esclusione totale dal mondo dei viventi, mentre i feriti gemevano, i morti imputridivano, i superstiti si aggiravano affamati, assetati e istupiditi».

Da una parte, Lungo le rive della morte racconta la disperazione: «Donne e vecchi morrmorano una specie di cantilena: “Figghiuzza, ah figghiuzza! Fratuzzu! Mariteddu!”». Dall’altra, il reportage è anche il resoconto della risposta dei sopravvissuti: i contadini di Archi che chiedono di poter tornare nei campi per estrarre l’essenza del bergamotto che in questo periodo è maturo.

Cena dà conto delle (attuali) preoccupazioni della gente di Seminara: «Fateci mandar legname; non fidatevi degli impresari! Gli appaltatori non ci daranno nulla! Legno e chiodi ci bastano: lavoriamo noi!».

 

Messina fontana mortorsoli piazza duomo

Fontana Montorsoli, piazza Duomo, Messina – Giovanni Cena

 

Nel reportage non manca la descrizione dell’emozione nell’incontrare l’umanità degli studenti di medicina di Roma e di Genova, dei pompieri Roma e dei volontari della Croce verde di Milano, ma soprattutto dei marinai russi e inglesi: «per la prima volta nel mondo, dei soldati, recanti la divisa degli antagonismi nazionali, si sono sentiti uomini di fronte alla sventura di altri uomini. Marinai russi e inglesi prima, poi di tutte le nazioni hanno gareggiato nella carità».

Una pagina di giornalismo, quella di Giovanni Cena, che si conclude con una speranza, sempre attuale che gli italiani e soprattutto «i calabresi sapranno, al rischio che la natura impone loro, opporre essi stessi rimedi e un viso calmo di uomini».

 

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