Quando nel 2005 vidi, alla Maison Rouge di Parigi, per la prima volta il lavoro di Gerda Steiner e Jorg Lenzlinger, rimasi colpito dalla distonia tra quel fluorescente ambiente pseudo-allegro e il resto degli spazi, adibiti ad esposizioni che mi parvero di diverso carattere: da un lato la collezione e il lavoro dedicati alla Art Brut di Arnulf Rainer, dall’altro le sculture analiticamente preoccupanti di Berlinde de Bruyckere.
Si trattava di una distonia apparente e di una mia incomprensione ma, in un certo senso, fui penalizzato dalla qualità complessiva di quella presentazione: le due mostre di Rainer e di de Bruyckere erano così efficaci da quasi nascondere la verità del lavoro dei due artisti svizzeri, del quale colsi soltanto l’allegria e lo scherzo sul concetto di orto domestico.
La mostra presso la galleria Buchmann di Lugano, anni dopo, così come gli interventi a Coira nel corso del 2013, hanno offerto invece una presentazione più articolata del loro lavoro, consentendo varie chiavi di accesso e mettendo luce in modo così netto sulla sua complessità che io ho impiegato un po’ a collegare le mie due esperienze.
Una volta ricostruite quelle presentazioni nella mia memoria, sono riuscito a valorizzare nel giusto modo la mia reazione a Parigi, rallegrata, buffonescamente critica e compiaciuta. Ho inoltre capito che non vi era poi cotanto iato tra il finto giardino e Rainer, de Bruyckere, l’Art Brut.
Così la mia fruizione della mostra di Agra, a Lugano, si è arricchita di elementi di riferimento che ne forzano alcuni valori. Peraltro, una ulteriore forzatura è data dal fatto che ho visto Elena Buchmann, la gallerista, in una condizione quasi da Cenerentola.
Quando sono tornato a vedere una seconda volta la mostra ad Agra, in galleria, a un certo punto la signora Buchmann è andata preoccupata a consultare due foglietti di istruzioni appesi a una parete e, con un annaffiatoio, ha nutrito due installazioni ubicate nella parte della galleria che funge da passaggio e che raccoglie una biblioteca, due sedie, la bibliografia della mostra e una grande finestra sulla terrazza.
Ella ha dato un po’ di acqua a una pianta rampicante e a una scultura dinamica creata con un fertilizzante chimico, poi mi ha spiegato di come debba attenersi rigorosamente alle istruzioni che le sono state impartite nella speranza che la pianta continui a vivere, nella speranza che non vada a fare corto circuito con qualche cavo o lampada, nella speranza che l’opera fatta di fertilizzante non debordi troppo dal suo assetto invadendo gli spazi della galleria.
Ho chiesto alla gallerista come si sente nel ruolo di esecutrice di ordini così precisi e mi ha risposto che fa il suo dovere; le ho manifestato le mie perplessità sul fatto che davvero gli artisti possano essere in grado di stabilire quando occorre nutrire le due opere per scongiurare pericoli; mi ha fatto capire: certo e ciò non altera affatto il senso né il pregio dell’operazione.
Mi ha colpito la sottile cattiveria con la quale la gallerista è “invitata” a “dedicarsi” alle due opere e il contrasto con l’allegria che emana dai colori di entrambe, con la vitalità che vi possiamo leggere. Già aveva colpito il parallelo così secco tra la fluorescenza di ciò che è il frutto di una reazione chimica (il progresso di un fertilizzante) e il volontarismo di una pianta rampicante, che cerca negli spazi di una galleria di svilupparsi e vegetare.
Ciò che succedeva nell’area di disimpegno della galleria ci aiuta a capire il senso della grande e magniloquente installazione che abitava la stanza affianco e che riprendeva l’installazione proposta alla cinquantesima Biennale d’arte di Venezia, nella chiesa di San Stae.
Il concetto di “giardino”, evocato spesso nelle opere della coppia di artisti svizzeri, va inteso in un modo peculiare: è giardino un insieme di presenze cromatiche vivaci che stanno in una certa reciproca armonia; tali presenze possono essere vegetali, animali, frammenti, oggetti trovati, componenti chimiche, manufatti… senza una precisa gerarchia. A dare dignità a ciascuna componente è la sua capacità di formare un insieme complesso ed equilibrato.
Questa definizione ci può dare ragione del perché gli artisti mettano insieme componenti così diverse tra di loro, perché diano pari dignità a ciascuna di esse, ma non ci dà ragione dell’aspetto maligno, che è innegabile e forte quanto quello allegro e quello armonico.
Il loro non è in effetti tanto un giardino o una installazione quanto una sagra, un sabba concettuale che attraverso la metafora del giardinaggio o dell’assemblaggio indaga la relazione tra disfacimento e proliferazione, tra putrefazione e gemmazione, tra il fato e la stregoneria.
Il lavoro di Steiner e Lenzlinger celebra e analizza la rigenerazione della vita e la trasforma in una nuova forma. Comment rester fertile? recita il titolo di una loro opera. Il nucleo del loro lavoro sembra in effetti proprio risiedere nel confine e nella crasi di fertile e putrescente, un’area dove la vitalità si confronta con un ineluttabile e macabro processo mortuario.
Il loro culto delle fertilità si radica nella promozione triviale e simultanea del conflitto e della attrazione, della variopinta ed edulcorata, vitale allegria / gioia e del macabro compiacimento assassino o collettivamente suicida.
Se quindi a un certo punto della fruizione del lavoro di Steiner e Lenzlinger viene in mente una immagine di un tramonto nello smog, con il suo magnifico espressionismo cromatico che si nutre proprio del veleno che abita l’aria, dopo un po’ si incomincia ad avere la sensazione che il lavoro dei due artisti non si limiti a prendere atto di quanto il disastro possa essere estetico (la forma del fungo atomico) ma di come nel disastro si possa generare non soltanto estetica ma anche vita, innanzi tutto estetica.
Ecco che acquisisce senso la dolcissima cattiveria nei confronti della signora Buchmann che viene utilizzata alla missione dell’arte di ricreare, anche se in nuce, un mondo, una vita che, irrorata, si sviluppa, sia essa vegetale o chimica.
Se poi guardiamo il video intervista relativo all’intervento della coppia di artisti per la Biennale di Sidney del 2014 abbiamo ulteriori elementi delle componenti del loro lavoro, a partire dalla loro plastica facciale.
Se pensiamo quanto fu volgare il gesto di chi appiccicò il gallerista alla parete, costringendolo, per dire che il gallerista va condannato, in quella situazione fino a che non fu portato all’ospedale, la modalità di azione e di aggressione di Steiner e Lenzlinger ci appare molto più raffinata e convincente, oltre che rispettosa e, tutto sommato, aperta alla fiducia.
Inoltre mentre nei culti della fertilità possiamo avere la sensazione che il carattere mortuario sia una proiezione scaramantica e scatologica di un impeto vitalistico, nel lavoro di Steiner e Lenzlinger sembra all’inverso che l’allegria vitalisitca nasca proprio dall’analisi dello stadio in cui, umanità, ci siamo ridotti. Lo conferma la citazione di Elena Buchmann che precisa di essere stata avvisata, di fronte alla scultura fatta di fertilizzante, che quel fertilizzante lo introiettiamo tutti, abitualmente, attraverso i cibi.
È la inappellabilità della condanna che genera il filo di speranza. E qui troviamo la connessione con alcune parti del lavoro di Rainer e con il suo lavoro sulla Art Brut.
Troviamo infatti anche nella poetica di Steiner e Lenzlinger il modo in cui la cattiveria, la violenza segnica, la disperazione, l’afflato mortuario possano prendere forma in modo anche puro, anche gradevole come succede con i delfini annegati nel fertilizzante che notiamo in un’opera dei due artisti.
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