tratto da
ChinaFiles
«Si intravede un nuovo corso nel sistema sanitario cinese. Adesso ci vuole una nuova forma mentis».
Parte in quarta il professor Zhang Wei, già chirurgo e ora docente di “politiche sanitarie” alla Guanghua School of Economics dell’università di Pechino, praticamente la Bocconi del Celeste Impero. «Nuovo corso significa che tantissimi soldi sono e saranno sempre più spesi nella sanità; oggi siamo solo al 6 per cento del Pil, ma a breve saremo tra l’8 e il 10”, continua. “Ma senza un cambiamento di mentalità, saranno soldi sprecati».
Il cambiamento è in realtà già in corso da almeno cinque anni. Di fronte all’innalzamento dell’età media e all’aumento delle malattie “economiche”, quelle cioè prodotte proprio dal progresso, il governo cinese sta cercando di allargare le tutele sanitarie a tutta la popolazione, uniformando un sistema che a oggi è troppo affidato alle autorità locali e perlopiù inefficiente e diseguale. Se ai tempi dell’uguaglianza piatta maoista c’erano i “medici scalzi” – semplici studenti o praticoni spediti a esercitare in campagna – che garantivano una copertura rozza ma capillare, lo smantellamento di quelle tutele “povere” ha lasciato una situazione complicata e diseguale. Si prenda il diabete, malattia figlia di una nuova e diversa alimentazione: «A livello mondiale colpisce il 6,4 per cento della popolazione, in Cina siamo ora a circa il 10 e anche sia 12 in alcune aree urbane», dice Zhang. E in generale, «sia i ricoveri sia le visite ambulatoriali sono raddoppiati negli ultimi cinque anni».
Ora, quasi tutto il sistema si basa sugli ospedali pubblici, la cui qualità varia tantissimo a seconda del luogo. E i dottori sono alle dipendenze degli ospedali stessi, con licenze vincolate all’istituto; non possono quindi esercitare in più ospedali o in ambulatori privati e questo determina una carenza di medici disponibili. Le cure, quando ci sono, finiscono per essere diverse se sei un contadino o un cittadino – complice anche il sistema della residenza obbligatorio detto “Hukou” – e, in città, a seconda che uno abbia un lavoro fisso oppure no. Se non sei soddisfatto puoi ricorrere alle cliniche private. Ma questo è un ulteriore fattore di discriminazione.
Così, «la Cina è lontana dai paesi sviluppati in termini di aspettativa di vita e di resa sanitaria. Siamo più o meno ai livelli della Turchia», spiega Zhang.
Per lui la sanità è un’attività economica ma, ci tiene a precisare, non nel senso che deve essere finalizzata al profitto, bensì che le risorse sono limitate e che quindi bisogna ragionare sull’intero sistema tenendo conto di questa scarsità.
Manco a dirlo, sull’allocazione delle risorse, in Cina, conta tantissimo il fattore politico. «Per fare un esempio, qualche anno fa, il premier Wen Jiabao si fece fotografare mentre abbracciava un bambino malato di leucemia. Dopo quella foto, è partita una campagna per curare quella malattia e il governo centrale ha incoraggiato i governi locali a dare copertura sanitaria per le malattie catastrofiche dei bambini. Ma allocare risorse per la leucemia le toglie ad altre malattie».
Le pressioni sul sistema degli ospedali pubblici crea un altro problema: da anni i medici cinesi vengono ripetutamente aggrediti dai pazienti o dai loro familiari infuriati. Ci sono stati casi di omicidio e il professor Zhang mostra con un certo macabro umorismo la foto di una sala operatoria: «Il mio dettaglio preferito è la mazza da baseball appoggiata al muro. Questa equipe di medici ha deciso di difendersi».
«Sa perché succede? Negli ultimi anni la spesa sanitaria è aumentata più del Pil. Ma la parte a carico dei pazienti è aumentata ancora di più, così il cinese ha la sensazione che, anche se l’ingresso di denaro pubblico nel sistema è in crescita, lui pagherà comunque sempre di più».
Il punto, secondo il professore, è che gli “ospedali pubblici” lo sono solo di nome: sulle spese di un anno, il governo ne copre solo circa un mese, così gli amministratori devono trovare una soluzione per i restanti 11 mesi. E quindi ricorrono ai profitti sui farmaci venduti all’interno degli ospedali. «Impongono prezzi alti per ricavarne più soldi e inoltre spingono i medici a prescriverne troppi. Agiscono poi sull’equivalenza tra nuova tecnologia e nuovo prezzo. Una semplice aspirina costa uno, ma se la dipingo di rosa costa dieci, sicché gli ospedali fanno pressioni sul governo affinché accetti queste ‘nuove’ tecnologie e relativi nuovi prezzi». Il paziente ignaro se la prende con chi gli capita tra le mani e ritiene i medici direttamente responsabili di cure costose che poi magari non «Ma i dottori sono a modo loro vittime del sistema, perché sono vincolati all’ospedale stesso. Così la Cina è forse l’unico Paese al mondo dove se un figlio dice ai genitori ‘voglio diventare medico’ quelli si mettono le mani nei capelli».
In base alle ricerche empiriche di Zhang, nell’erogazione concreta del servizio sanitario ci sono fondamentalmente tre modelli che funzionano bene in Cina.
Il primo è quello basato su grandi cliniche in grado di creare un’economia di scala. «L’esempio è l’ospedale di Chengdu, che ha 7mila posti letto. Teoricamente sarebbe ingestibile, invece è di classe mondiale e sostenibile. Perché? Prima di tutto perché con i volumi, ha aumentato la gamma di servizi offerti; poi perché si è dotato di infrastrutture: banche, tecnologie informatiche, trasporti, tutto ciò che può aiutare l’ospedale a lavorare a ciclo continuo, 24 ore su 24; infine, perché è stato affidato a un amministratore con esperienza ventennale». Date le loro dimensioni, questi ospedali possono diventare hub che coordinano un network sanitario.
E si arriva quindi al secondo modello che funziona, la “fabbrica focalizzata”: piccoli istituti dediti a una specifica malattia e di livello molto alto. È questo il caso di un ospedale in una remota contea del Guangdong – dice Zhang – che qualche anno fa ha raggiunto un accordo con il governo locale: «Non sovvenzionarmi più, ma dammi la libertà. Così è diventato una sorta di ospedale indipendente, di alta classe per la cardiochirurgia».
La terza strada da percorrere è secondo il «l’assistenza sanitaria retail, il modello Seven-Eleven [da noi sarebbero ambulatori privati, ndr], che fornisce assistenza sanitaria a livello di comunità e sta già cominciando a emergere nel sud della Cina».
Tutti questi esempi ci portano secondo Zhang Wei a una conclusione: manco a dirlo, meno Stato e più mercato. Ovvero, bisogna spostare il baricentro del sistema dagli ospedali pubblici alle assicurazioni private (magari con l’aiuto di sussidi statali), che sono per definizione – almeno per gli apologeti della sanità-business – interessate a garantire servizi più efficienti.
Il che suggerisce quanto meno un’obiezione: se il sistema sanitario cinese è già discriminatorio, perché correre ad ampie falcate verso il mercato?
Secondo il professore, premesso che in Cina la distinzione tra Stato e privato non è così limpida, «guardando all’intero sviluppo cinese si vede che quando il governo fa un passo indietro, succedono miracoli, come nel caso del commercio elettronico [Alibaba, ndr]. È proprio la mentalità della gente che sta cambiando. Ci si fida sempre meno di un governo che non è tenuto a dare risposte all’opinione pubblica, come succede invece in altri sistemi. Di fatto, molti progetti che sembrano buoni sulla carta, si perdono a livello di governo locale, dove la competenza dei funzionari diventa una questione chiave. Il punto è: in Occidente, l’assistenza sanitaria è fornita in genere da un governo – in forma diretta o appoggiandosi ad assicurazioni private – che è responsabile nei confronti del popolo. Qui no».
Dunque, paradossalmente, sarebbero proprio le caratteristiche “socialiste” del sistema politico cinese a suggerire la svolta di mercato. Per non mettere in discussione il modello politico e il proprio potere, per recuperare consenso, il partito/governo deve essere quindi il grimaldello con cui il capitale privato detta le regole del welfare a venire. In pratica, il capitalismo secondo caratteristiche cinesi.
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