un reportage sulle emozioni e le immagini di un Paese che cerca di lottare contro l’inerzia della storia.
di Simona Chiapparo e Alessandro Ingaria – foto di Alessandro Ingaria
Reportage realizzato nell’ambito del progetto I figli del mondo, a cura di Centro Studi Ksenia e Geronimo Carbonò, in collaborazione con Ariete Onlus.
La recente storia egiziana si compone di molteplici racconti della rivoluzione e dei suoi postumi, a tratti ispirati dalla suggestione estetica di accadimenti drammatici dalle qualità “spettacolari”, come la recente uccisione dell’attivista Shaimaa Al-Dabbagh, durante il quarto anniversario dei fatti di Piazza Tahrir. Racconti che spesso si strutturano con modalità di analisi talmente ravvicinate a singoli eventi, da compromettere la ricerca delle istanze psicologiche più profonde.
Nel 2008, il britannico John R. Bradley aveva ampiamente descritto, e previsto, le motivazioni socio-politiche e gli intrecci economici internazionali che avrebbero condotto la terra dei Faraoni sull’orlo di una rivoluzione. Quello che oggi urge è una riflessione sui significati culturali ed esistenziali delle vicende egiziane, significati innegabilmente legati, se non comuni allo scenario occidentale.
Gli avvenimenti iniziati il 25 gennaio 2011 a Piazza Tahrir confermano, in primo luogo, l’impossibilità di leggere in modo univoco i processi storici.
Nel Conflitto delle facoltà del 1798, Immanuel Kant indagava il divenire storico, analizzando anche l’ipotesi “abderitistica”, secondo cui la storia era un groviglio caotico ciclicamente autorigenerantesi, come nel mito di Sisifo bloccato nell’azione di sollevare un masso destinato a cadere.
Una ciclicità chiaramente evidente nella rivoluzione egiziana del 2011 che, riattivando alcuni aspetti dell’epoca di Gamal Abdel Nasser – sotto alcuni versi “rivoluzionaria” per la presa di posizione contro l’imperialismo britannico – ha rovesciato il regime trentennale di Hosni Mubarak, generando il sogno collettivo di una nuova era di “felicità” nel mondo arabo.
Un sogno da cui ci si è risvegliati, riscoprendosi nuovamente “dannati della terra”, sotto il governo militare di Abd al-Fattah al-Sisi che ha spazzato l’embrionale fase di transizione democratica di Mohamed Morsi, con il consenso involontario di larga parte della popolazione, affetta da stress per le quotidiane preoccupazioni economiche.
Un destino contemporaneo, quello degli egiziani, segnato dalla ciclicità: riprendono le proteste contro la dittatura, mentre una larga fascia delle famiglie scommette sull’impresa dei propri figli, convincendoli ad arruolarsi nell’avventura migratoria clandestina. Il sogno di una nuova felicità, da cui molti adolescenti egiziani sono stati già brutalmente risvegliati, scoprendosi schiavi dei circuiti dello sfruttamento lavorativo in Italia.
I dati aggiornati all’ottobre 2014 registrano sul territorio italiano 3.369 minori egiziani non accompagnati.
Di questi 878 scomparsi dopo l’identificazione, motivati dall’urgenza di eseguire il mandato familiare: trovare un lavoro – un qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione – ripagare il debito economico sottoscritto per il loro rischioso viaggio, garantire ai loro genitori un futuro che, a loro stessi, hanno già pregiudicato.
Alla luce di questa situazione si rende necessario rivisitare il quesito kantiano su cosa sia l’uomo. La spinta verso un miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche, declinata esclusivamente come tensione ad aumentare il proprio potere di acquisto è oggi il centro nevralgico, da cui si diramano molte delle dinamiche storiche contemporanee, comprese quelle dell’universo arabo. Dominati da questa tensione, sedotti dall’idea di espandere le proprie facoltà materiali, si diviene soggetti di auto-sfruttamento, alimentando e sostenendo i meccanismi di potere, di cui si è vittima.
Piazza Tahrir, per le derive paranoiche e i vissuti persecutori di una teocrazia militare autoreferenziale, è presidiata senza soluzione di continuità da giovani militari egiziani, selezionati al ruolo di difesa per la loro prestanza fisica, rispetto a più logori – nel corpo e nella divisa – uomini delle altre forze dell’ordine, assegnati al controllo degli edifici bancari o alla gestione del traffico.
Le altre vie e le altre piazze della città, da Downtown a Matareya, sono brulicanti di egiziani – tantissime donne, tantissimi bambini – impegnati nella missione disperata di sopravvivere ad ogni nuovo giorno.
Intanto Il Cairo si espande di una crescita distrofica, che porta il 63 per cento della sua popolazione ad abitare nelle cosiddette aree informali: baraccopoli allestite ovunque, anche all’interno delle necropoli suburbane. Tutto questo mentre moltissimi egiziani vivono in desolati aggregati satellite nel deserto: Gharbeya, Mansura, Kafr El Sheikh.
Luoghi che sono fabbriche di quell’immigrazione minorile clandestina che rischia di trasformarsi in un’inconsapevole auto-condanna alla dannazione e all’infelicità, anche per gli egiziani più consapevoli sul piano politico, anche per gli attivisti che continuano a protestare per le strade, sfuggendo alla repressione violenta della polizia.
La precarietà dell’odierna società egiziana è la precarietà dell’intero genere umano che non riesce a reagire alla fragilità naturale della vita, svolgendo un esercizio di lucida e partecipe osservazione del reale, in nome del quale reagire con una consapevole ed efficace resistenza.
Se la rivoluzione egiziana doveva portare al progresso verso la libertà, oggi questa libertà si sta estrinsecando solo nell’impulso a mantenere i propri consumi – ognuno secondo le proprie disponibilità economiche – mentre si acuisce il dissolversi della libertà dalle relazioni interpersonali. Un dato fra tutti: la violenza di genere, così come la negazione dei diritti dei bambini, ha raggiunto livelli spropositati in Egitto.
Quindi se, come osservato da Slavoj Žižek, la globalizzazione capitalistica rischia di avvelenare qualsiasi rivolta contro l’autoritarismo di stati-nazioni-partiti, occorre allora ripartire da azioni più semplici, ispirate ai valori della convivenza e della responsabilità individuale.
In Egitto, prima ancora che il rovesciamento dell’attuale regime militare, occorrerebbe ripensare ai rapporti tra esseri umani.
Ad esempio, osservando la dignità con cui le madri di Al-Qarāfa – pur in condizioni di indigenza estrema, in quanto abitanti di un cimitero – si prendono cura della propria famiglia. O guardando l’operosità degli abitanti di Zabaleen – la città della spazzatura, a Mansheya Naser – che hanno compreso il dono di essere una comunità, sebbene questo dono sia espresso dal dover vivere (tutti) del riciclaggio dei rifiuti urbani.
Allora forse per salvarsi dall’inerzia che sembra soffocare il destino degli egiziani – come di larga parte delle società occidentali, schiacciate dalla crisi – basterebbe riattivare la coscienza della forza di gravità. Newton scoprì che la gravità agiva proprio con la forza esattamente necessaria per vincere l’inerzia. Riscoprire la propria relazione con la forza gravitazionale, riscoprire che l’unica forma di resistenza alla fragilità delle vita risiede nella forza dei legami tra gli esseri umani, potrebbe essere un nuovo inizio del processo storico egiziano. E umano.
Acknowledgement to Mohammad J.
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