Selma

di Ava DuVernay, con Daniel Oyelowo, Tom Wilkinson, Tim Roth, Carmen Ejogo, Oprah Winfrey, Lorraine Toussaint, Rapper Common, Cuba Gooding jr., Giovanni Ribisi, Lorenzo Nivola. Nominations agli Oscar come miglior film e miglior canzone originale (Glory). Nelle sale dal 12 febbraio

Di Irene Merli

Questo è un film necessario, se per necessario intendiamo un’opera che racconti sui grandi schermi la storia di una persona che ha cambiato la vita di tanti, tanti altri. E che può ancora cambiarne. Non per nulla la regista, prima afro-americana ad aver vinto un Sundance Festival, ha definito Selma “la storia di una voce, di un leader, di una comunità che trionfa nonostante tutto”.

Il leader è il dottor King, uno di quei rari individui che hanno “fatto” la storia dei diritti civili. Eppure, in modo inspiegabile e anche un po’ sconcertante, prima di Ava DuVernay nessuno aveva fatto un film su di lui, a più di 50 anni dal suo assassinio.

E nessuno aveva mai raccontato cosa fosse successo nelle stanze del potere, nelle strade in cui i neri continuavano a scendere, nell’animo di Martin Luther King in quei mesi della primavera 1965 in cui vennero decise, preparate e tentate 3 marce dalla piccola cittadina di Selma a Montgomery, la capitale dallo Stato razzista dell’Alabama. 54 chilometri da percorrere a piedi passando per il ponte Pettus, ancora oggi dedicato a un generale leader e ispiratore del Ku Klux Klan, per chiedere un diritto umano imprescindibile negato alla comunità nera del Sud: quello del voto.

Ma Selma, soprattutto, è un film in cui è praticamente impossibile non commuoversi, dalla prima scena in avanti. In America si sono trovati a piangere anche alcuni dei critici più duri del film, quelli che ne hanno contestato l’impianto classico o la ricostruzione dei rapporti tra King e il presidente Johnson. E questo perché la regista impedisce di stabilire una distanza emotiva dai personaggi, ci mette accanto a loro come se fossimo di nuovo là, nel marzo 1965, nelle chiese, nelle case, sulle strade in cui si radunavano e marciavano attivisti e persone comuni, tra scontri e violenze inenarrabili. Proviamo anche noi la paura, la sofferenza, la stessa insopprimibile voglia di giustizia dopo una serie infinita di soprusi.

Negli anni Sessanta, in Alabama, il Ku Klux Klan era ancora uno stato nello Stato. E chiamare la polizia non serviva. Anzi, poteva essere la rovina.

Così tutte le persone realmente esistite che vediamo sullo schermo (alla fine della storia se ne scopriranno i diversi destini, non scappate!), passano dalla dimensione bidimensionale della grande Storia a quella tridimensionale del diario intimo, della vita quotidiana minacciata dal pericolo e percorsa dalla passione. Sorte che capita in pieno anche al dottor King, che qui da mito diventa una persona, un uomo di 36 anni con i suoi dubbi, i suoi timori, gli errori e i lati oscuri (i rapporti con le donne). Ada DuVernay non ha timore di affrontare direttamente un’icona e di smontarla, ma non ne sminuisce mai grandezza e incredibile statura.

Questa è una lezione profonda di Selma: vedendo agire il reverendo King, scorgiamo impietosamente la differenza tra un leader e un politicante comune dei nostri.

Martin Luther King sentiva il peso della responsabilità delle persone che guidava e di quelle che perdeva, sapeva prendere decisioni impopolari (e lo si vedrà nel film) e non mollava mai i negoziati perché aveva sempre in mente la meta finale, e cercava la massima unione possibile nella sua martoriata comunità.

I suoi potenti discorsi partivano piano, poi salivano di intensità. Ed erano sempre sostenuti da un credo religioso, fatto che a noi oggi suona strano, ed evoca integralismo anziché nonviolenza e pacifismo.
Last but not least, quando si esce da Selma si capisce molto meglio il fallimento del melting pot in America.

Dopo tanto odio, tanta violenza, un presidente afro-americano non può certo bastare a placare le tensioni razziali, che anzi di recente sono tornate prepotentemente a galla. “Selma è lo specchio del presente, Ferguson quello del passato, in un distorto continuum”, ha dichiarato la regista. E Rapper Common, nella canzone finale, canta “La resistenza siamo noi. Ecco perché Rose si è seduta sull’autobus, ecco perché camminiamo a Ferguson con le mani in alto”. Il cuore più oscuro dell’America, quello che batteva più forte negli Stati del Sud, è ancora lì. In “Selma” lo vediamo benissimo. Ma non solo, purtroppo.

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