Con Mirage à l’italienne Alessandra Celesia firma un’opera che unendo finzione e documentario racconta un gruppo di persone in partenza per l’Alaska.
A Torino un’azienda cerca un gruppo di persone disponibili a trasferirsi in Alaska per pulire salmoni. Dai colloqui vengono selezionati cinque candidati: una donna sola con un passato travagliato, un’attrice con scarso successo, un meccanico omosessuale, un ex soldato che ha combattuto in Afghanistan e un pubblicitario che ha perso un figlio da molto tempo. Questi sembrano non avere nulla in comune a parte il desiderio di cambiare nettamente la propria vita.
Fin dal soggetto iniziale risulta evidente che Mirage à l’italienne di Alessandra Celesia unisca la problematica socioeconomica dell’Italia in crisi con tematiche riguardanti la sfera più intima e personale. Ed è proprio quest’ultima a prevalere: infatti, la situazione collettiva è qui soprattutto un punto di partenza per osservare i cinque protagonisti e indagare i loro sentimenti, le loro frustrazioni e il loro vissuto drammatico di esistenze fragili e forti allo stesso tempo.
Nel realizzare tutto ciò, la regista non è mai sarcastica o sensazionalista, ma adotta al contrario un approccio molto delicato e rispettoso, che fa emergere tutta l’umanità dei personaggi, al di là dei loro difetti e delle loro caratteristiche più particolari.
Ma l’elemento maggiormente interessante dell’opera non è da cercare tanto nel modo con cui vengono affrontati determinati soggetti e problemi, quanto nell’unione tra fiction e documentario, lampante sia nella realizzazione sia nella narrazione.
In primis, l’autrice è intervenuta decisamente sulla realtà creando e influenzando situazioni ed eventi. Lo spunto di partenza nasce proprio da un’idea della documentarista, che – ispiratosi a un fatto simile accaduto a Torino nel 1995 – ha proposto a un’azienda di assumere un gruppo di persone per farle lavorare in Alaska.
Ciò è stato possibile con le seguenti modalità: i colloqui si sarebbero svolti con la telecamera e l’impiego sarebbe stato pagato dalla casa di produzione Arte France, in modo che la regista potesse essere libera di selezionare i soggetti più adatti al film.
Dunque, l’opera è fin dalla sua progettazione un ibrido tra finzione e documentario perché se è vero che i personaggi sono reali, è altrettanto indubitabile che la situazione è stata costruita e premeditata, forse persino sceneggiata, nonostante la presenza di un imprevisto importante (che evitiamo di svelare per non rovinare la sorpresa).
Tutti elementi che la cineasta porta avanti anche dal punto di vista narrativo. Il racconto è, infatti, molto classico e lineare, non solo perché rispetta la cronologia degli avvenimenti iniziando dall’annuncio, proseguendo con i colloqui e il periodo di formazione fino all’arrivo in Alaska, ma anche e soprattutto perché mette al centro i cinque soggetti fin dalle prime sequenze, che mostrano sia la vita quotidiana dei protagonisti sia i momenti della selezione del personale.
Una forma narrativa che per solidità, scorrevolezza e, in parte, prevedibilità risulta più vicina a un film di finzione che a un documentario. Ed è proprio all’interno di questo tipo di racconto che lo spettatore può assistere alle (reali) azioni dei personaggi e alle loro (vere) relazioni.
E se si esclude un finale un po’ tronco, il risultato complessivo è intenso e compatto sia per la scelta dei soggetti e il modo con cui vengono osservati sia per la quasi totale assenza di forzature e sbavature, qualità che forse derivano dalla formazione teatrale della regista.
Caratteristiche che probabilmente hanno fatto vincere a Mirage à l’italienne la Menzione Speciale per il Miglior Lungometraggio al Milano Film Festival del 2013.
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