di BB
La prima rivoluzione
Anche il teatro vive di rivoluzioni. Che arrivano come sempre all’improvviso, seppure qualcuno stia lavorando da tempo perché ciò accada. Luca Ronconi ne sa qualcosa: prende il volo in un decennio, fine anni ’60 e gli anni’ 70, durante il quale la società cambiava radicalmente e anche lui ha fatto scoppiare parecchie rivoluzioni in palcoscenico (e fuori), senza mai smettere di tenere viva nel suo lavoro la forza destabilizzante, il desiderio di aprire squarci e andare a esplorare. Fino alla fine: Lehmann trilogy, l’ultimo spettacolo in scena questa stagione al Piccolo Teatro racconta di economia, dell’origine della crisi in cui siamo tuttora. Sembra un’unione impossibile con il teatro. Eppure.
Eccola qui un’altra sfida vinta. Una della tante messe a punto per parlare del mondo tenendo ferma l’attenzione sulla funzione tacita del suo fare teatro: grandi e altissime metafore, da sempre, i suoi spettacoli di quanto c’era fuori, oltre la quarta parete.
Non c’era mai da avere dubbi secondo me su un suo lavoro: uno che mette in scena L’Orlando Furioso, con le ottave riscritte da Edoardo Sanguineti, come ha fatto lui nel 1969, poi non si ferma. La sua forza dirompente non la doma. Quella se la tiene come energia propulsiva. Anche se a farmelo credere allora, quando l’ho visto in tv, era solo lo stupore e la certezza dell’intuito: e cioè che quelle macchine sceniche con gli attori sparsi in quello spazio immenso avrebbero creato un varco tra il prima e il dopo.
Una sorta di paradigma di Khun. E infatti è stato lo spettacolo-monstre di quegli anni, celebre per il suo radicale ripensamento dello spazio teatrale e dei modi della fruizione del pubblico: lo spettatore assisteva a una simultaneità di scene diverse in luoghi diversi, così vedeva scegliendo quello che preferiva, potendo anche cambiare quando voleva e interagendo con gli attori stessi che recitavano fra la gente. La separazione tra rappresentazione e pubblico del teatro classico era scomparsa. E lo spettatore un soggetto attivo.
La seconda rivoluzione: si parla di spazio scenico
È il regista dello spazio e non del luogo scenico: «A Prato mi sono convinto che ogni testo teatrale – al di là delle struttura drammaturgica convenzionale, legata alle condizioni di rappresentazione dell’epoca in cui è stato scritto, possiede un suo unico spazio ideale». Storia dell’Orlando Furioso, Io ne avevo dei racconti in salotto da chi lo aveva visto e seguiva il lavoro al Laboratorio teatrale di Prato. Ne ricordo lo stupore e la magia negli occhi di chi me lo descriveva, che era già avvezzo al buon teatro.
Ma ribadiva che il Ronconi del Fabbricone era diverso. Mai visto in Italia niente prima.
E infatti quell’esperienza unica fu contestata moltissimo: un piccolo paese dove si incontravano intellettuali come Luigi Nono, Gae Aulenti, Edoardo Sanguineti, Dacia Maraini, e viveva giornalmente di teatro. Il modello era quello di un teatro pubblico in cui tutta la città partecipava con i suoi luoghi e la sua storia: il cementificio, il Fabbricone, l’orfanatrofio, l’Istituto Magnolfi, la banca dove c’era la segreteria e si lavorava tutti i giorni e il Teatro Metastasio. Gae Aulenti, che ha creato le scenografie degli spettacoli leggendari di quel periodo: La Torre di Hofmannsthal, Il Calderon di Pasolini e Le Baccanti, racconta così: era il primo luogo stabile di ricerca, ma la fatica che abbiamo fatto per ottenere i due anni. Il rapporto con le istituzioni non è stato affatto idilliaco… Era troppo anche per l’Italia degli anni’70. «Queste esperienze non erano possibili nemmeno quando le ho fatte io, negli anni’70, sono sempre state censurate e ritenute impossibili. Le difficoltà economiche ci sono, e certamente non favoriscono la produzione di spettacoli molto costosi, ma questo non è in sé un fatto negativo. Tentare di fare qualcosa di impossibile è l’aspetto utopistico del teatro, che è sempre necessario». Io ho imparato la parola messainscena e la sua differenza con spettacolo dopo una cronaca di un dietro le quinte di Gae Aulenti per l’Orestea di Prato. La prima contiene sempre, secondo me, il concetto di work in progress. Quello di chi ricerca e rivoluziona.
La terza rivoluzione: la drammaturgia
Ovvero i testi. Prendeva e ricreava testi non teatrali in luoghi non teatrali (cementifici, piazze…). Una ricerca instancabile di idee drammaturgiche. Approdando ad esempio alle “edizioni teatrali” di romanzi importanti e tostissimi: Il Pasticciaccio brutto di via Merulana, sul finire degli anni Novanta. Non solo classici e contemporanei, ma testi scientifici. Dalle difficoltà insormontabili del pastiche di Carlo Emilio Gadda a Gli ultimi giorni dell’Umanità di Karl Kraus al Lingotto restituito alla vita. E poi la sfida con la scienza: Infinities da un testo dello scienziato John Barrow. Un’indagine sull’infinito ai magazzini della scala alla Bovisa. «E’ successo dopo tempo. Quando continua a ripresentarti una cosa vuol dire che la devi affrontare, dicono gli orientali», mi disse con il suo stile estremamente sintetico in un’intervista. «Questo è stato con la scienza per me».
La quarta rivoluzione: la recitazione
Il cosiddetto Metodo Ronconi. Una recitazione unica: anti naturalistica e artificiale. Pause e frasi corte e sguardi verso l’altrove. Davvero l’altrove. Perché ci doveva essere lo straniamento. Le frasi spezzate e intonate in una nuova ritmica. Un continuo confronto dell’attore con le parole pronunciate: balbettate, provate e azzardate. L’intenzione era nello spiegare come dietro anche due sole parole c’era l’inizio di una partitura che andava portata avanti così per precise ragioni drammaturgiche. «Tuttavia la nostra recitazione sarà ancora artificiosa, poiché non esiste recitazione naturale. La cosiddetta colloquialità è uno stile che imita il modo di recitare in tv, in Inghilterra, in Francia. Uno stile italiano non c’è, c’è una recitazione napoletana. E allora bisogna vedere che rapporto si crea tra l’artificio e il testo che recitiamo, l’unico punto vero è capire se l’artificio che scegli è appropriato o no».
«Non ho voluto fare psicologismi nè servire ‘minestrine’ spiritose. Ho voluto evitare il rischio dell’evanescenza, sempre in agguato. Ho aiutato gli attori a mettere a fuoco, sotto ogni parola, comportamenti e situazioni. Li ho aiutati a trovare la sostanza sotto il merletto».
«Un lavoro pazzesco perché qui anche una piccola parte è importante. Per fortuna ho con me un gruppo di attori che non si accontenta, che ama cercare». Voi, diceva degli attori: siete scritture viventi. Cercava le potenzialità di ognuno e richiedeva di scavare. Per creare un attore consapevole. «Che affronti un testo o una scrittura scenica come qualcosa di necessario e non di genericamente esibizionistico. Instillare nell’attore la consapevolezza di stare dentro uno spettacolo in modo da tenerne le file come il regista. Attori che sappiano mettersi in discussione. Decidere quale dei propri mezzi e pensieri utilizzare per entrare come tassello preciso e consapevole all’interno di una messinscena» racconta Mauro Avogadro, uno degli attori che ha lavorato con lui nell’Orestea di Eschilo realizzata a Prato.
La quinta rivoluzione: il ruolo dello spettatore
Lo ha reso protagonista. Luca Ronconi così mite e gentile e un po’ sornione di persona, non ti dava tregua a teatro. Non lì non c’e’ mai pace. Le messinscena è immensa, sempre bellissima e altera, ma non c’è riposo. Sono ore di pensiero in corsa e coscienza che si interroga di continuo, riflessione in convulso succedersi e guizzanti intuizioni. «Lo spettate Quello che accetta di percorrere il testo con me, di scoprirlo a poco a poco come ho fatto io. “Lo spettatore che io vorrei è quello che accetta la rappresentazione teatrale come un’esperienza, come una festa, come un pericolo». Consegnava al pubblico il ruolo non facile di partecipare, anche fisicamente, resistendo, con il compito di elaborare quei blocchi enormi di testo e la durate epocale dei suoi spettacoli. Infatti quando stai seduto lì non c’è una pausa, ogni volta è un esercizio di attenzione e passione. Io credo che fosse arte necessaria, cioè quelle di chi non riuscirebbe a vivere senza farlo. Una volta in una intervista lui dichiarò che se non avesse lavorato in teatro non sapeva come sarebbe finito. «Non avrei potuto far altro che teatro. È un’attività anche terapeutica… Per me il teatro era l’unico territorio in cui potessi respirare naturalmente». Arte necessaria, la sua. Quella che lascia il segno.
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