«Ogni immagine esteriore corrisponde un’immagine interiore che evoca in noi una realtà molto più vera e profonda di quella vissuta dai nostri sensi. Questo è certamente il senso
dei simboli, dei miti e delle leggende: ci aiutano ad andare al di là, a guardare oltre il visibile.
Questo è anche il valore di quel capitale di favole e di racconti che uno mette da parte da bambino e a cui ricorre nei momenti duri della vita, quando cerca una bussola o una consolazione. Di questi miti eterni, capaci di far strada all’anima, in Occidente ne abbiamo sempre meno».
Tiziano Terzani
I ciechi e l’elefante
In un piccolo regno, c’era un Re, ormai stufo e molto preoccupato che la sua gente fosse così litigiosa, piena d’odio e accecata dalla rabbia e completamente sprovvista di dialogo e amore. Così, decise di dare pubblica dimostrazione di come tutto quell’astio non servisse a nulla.
Convocò in piazza tutti quelli che erano nati ciechi e fece poi portare lì un grande e maestoso elefante. Radunò la popolazione, affinché tutti vedessero, e cominciò con la sua dimostrazione.
Ad uno ad uno, fece avvicinare i ciechi all’elefante e, facendo toccare a ciascuno di essi una parte diversa dell’animale, chiese poi loro a cosa questo assomigliasse. Ci fu chi disse un tappeto, chi una colonna, chi un mantice, chi una grande mongolfiera, chi una fune di una nave. A seconda che avessero infatti toccato le orecchie, la pancia, le zampe, la coda o la proboscide, ognuno aveva pensato a una similitudine diversa per descrivere quell’essere così sacro alla loro cultura.
A quel punto, il Re chiese ai ciechi di confrontarsi tra loro e di decidere quale similitudine fosse la più adatta al pachiderma.
E non serve dire che gli insulti cominciarono ben presto a volare. Ogni cieco, infatti, incolpava gli altri di essere stupidi e incapaci, perché era chiaro che non avevano capito nulla dell’animale.
Le voci si alzavano sempre di più e alcuni ricorsero addirittura alle mani, cominciando a picchiare l’aria e tutto quello che gli capitava a tiro. Ognuno era assolutamente sicuro della proprio cieca convinzione
e a nessuno, nemmeno per un attimo, sfiorò l’idea di mettere in dubbio la propria similitudine per ascoltare quelle degli altri e magari trovare in esse la soluzione e la risposta definitiva alle richieste del Re.
E quest’ultimo, soddisfatto e già spazientito di quella reazione così ottusa e violenta, a cui anche tutto il popolo aveva assistito, s’intromise e con un grido li zittì tutti.
Uno per uno, li condusse nuovamente all’elefante e gli fece toccare le altre parti del grande animale che prima non avevano toccato. Poi li rimise tutti insieme e gli chiese nuovamente di fornirgli una descrizione definitiva del pachiderma.
Dapprima, tutti i ciechi, ancora un po’ impettiti per l’orgoglio, stentarono a trovare il dialogo con gli altri, ma poi, chi con una battuta, chi con una proposta, cominciarono a confrontarsi e a scusarsi tra di loro. Si fecero più vicini e decisero che l’elefante assomigliava a una grande mongolfiera, retta da quattro colonne, con due tappeti ai lati, un mantice sul davanti e una fune di nave di dietro.
Racconto Buddista
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