Il TTIP, trattato di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, è sui tavoli negoziali di Bruxelles da più di un anno eppure le sue conseguenze sulla vita quotidiana dei cittadini restano sconosciute ai più. Il 2015 sarà l’anno decisivo per le sorti dell’accordo e più di un milione di firme sono state raccolte per arrestare i negoziati, ma la Commissione Europea non ha ancora reso noti i documenti e la posta in gioco e continua le trattative in assoluta segretezza. A parlarne a Padova, Alberto Zoratti, presidente di Fairwatch e tra i referenti della campagna Stop TTIP-Italia.
Quattro lettere, una sigla: TTIP, che sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership, letteralmente Trattato di Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti. Nascosto dietro un acronimo e relegato, quando presente, a un trafiletto nei quotidiani economici, il TTIP, concepito intorno al 2007 e arrivato sui tavoli negoziali di Bruxelles nel 2013, resta un argomento di nicchia. “Analizzarne le conseguenze e chiedersi il perché del segreto sulle trattative, questo è il nostro compito”, chiarisce Alberto Zoratti, “ma soprattutto creare dubbi, conflitti sul territorio, spingere all’interrogazione”, con un approccio che scansa ideologie e soggettività, con l’intenzione di stimolare la consapevolezza e mobilitare i cittadini a livello territoriale. “Quello che avrebbe dovuto fare il governo, soprattutto nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea”.
Siamo a Padova e la sala del centro culturale San Gaetano è gremita. “A ogni incontro, registriamo tantissime presenze”, conferma Zoratti. “In fondo, anche i media nazionali non approfondiscono l’argomento, forse non lo trovano abbastanza attraente”, continua, “è più facile trovare pagine e pagine sull’Ebola e sull’Isis che informazioni sul TTIP, e non è un problema solo di questo trattato: l’Italia non è in grado di proiettarsi in una dimensione internazionale, non sembra interessata, nonostante abbia imprese coinvolte nei mercati europei, è paradossale”. La campagna Stop TTIP-Italia, nata nel febbraio 2014, oggi conta circa 25 comitati locali e porta quindi avanti un’opera di sensibilizzazione e alfabetizzazione su temi difficili per tanti, soprattutto a fronte dell’entusiasmo del governo Renzi.
Infatti, se Francia e Germania sono più diffidenti, per il premier italiano il TTIP è una priorità assoluta, e per il vice-ministro allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, un trattato da ratificare necessariamente entro il 2016 per non essere tagliati fuori dall’economia mondiale. Con l’avvento del TTIP, e con il parallelo accordo tra Unione Europea e Canada (CETA), si darebbe vita a una macro-area di libero scambio corrispondente al 63% del prodotto interno lordo mondiale, un gigantesco cordone economico da opporre alle economie dei paesi emergenti. Ma chi ci sarebbe alla guida?
Una munizione geopolitica
Gli Stati Uniti sono il primo mercato europeo per le esportazioni, con un florido commercio oltreoceano, pari a circa 800 miliardi di scambi annuali. A cosa serve un ulteriore trattato che abbatta le barriere tariffarie? “La verità è che i dazi sono già bassi e il principale ostacolo al libero scambio non sono le barriere tariffarie, ma quelle non tariffarie”, spiega Zoratti. Obiettivo principale del TTIP è, infatti, la cosiddetta armonizzazione dei commerci, uniformando normative e standard. Più che un trattato economico, siamo davanti a un trattato geopolitico, che consentirà agli Stati Uniti di avere il monopolio sui mercati europei e di annientare l’alternativa dei mercati orientali.
È stato calcolato un aumento delle esportazioni pari al 56%, ma soprattutto un aumento delle importazioni americane in Europa del 118%. Ma non solo: all’aumento, moderato, dei flussi già esistenti tra USA e UE, si accompagna una ristrutturazione degli scambi tra i paesi europei. È un fenomeno noto come trade diversion: il flusso non aumenta, ma si modifica, cambia direzione. In questo caso, si allontana dall’Europa. Ad esempio, avremo una diminuzione del 30% delle esportazioni dall’Italia verso la Germania. Non sono pochi gli economisti che hanno parlato di “disintegrazione europea”, un gigantesco passo indietro rispetto alla costruzione di un’identità comunitaria, fondata anche sull’integrazione dei mercati. Con un’aggravante, soprattutto per un sistema a moneta unica: l’aumento della concorrenza tra paesi europei. Per restare competitivi e abbattere ogni costo intermedio, assisteremo alla progressiva riduzione dei salari dei lavoratori, delocalizzazione delle imprese, sfruttamento e svilimento del lavoro.
Gli Stati Uniti sono, inoltre, in trattative con i 12 paesi affacciati sull’Oceano Pacifico per il TPP (Trans Pacific Partnership), un macro-accordo che coinvolge circa 600 multinazionali e che, se ratificato, darà vita a un’area corrispondente al 40% del PIL mondiale. I metodi, e gli obiettivi, sono gli stessi: completa segretezza sulle trattative, tavoli negoziali comprendenti solo multinazionali e governi, cittadini ignari. Entrambi i trattati possono leggersi come un tentativo da parte degli Stati Uniti di resistere alla progressiva esclusione dai nuovi mercati emergenti: da un lato la crescita di Brasile, India, Sud Africa e tutta l’America Latina, dove economie inedite si lasciano difficilmente rinchiudere nelle vecchie logiche di scambio, dall’altro l’avvicinamento graduale tra Russia e Cina, che minaccia di consegnare alla scena globale un nuovo gigante finanziario.
Un vuoto a perdere
“Il TTIP è lo strumento giusto per uscire dalla crisi”, è lo slogan vincente con cui il governo Renzi difende il trattato, sbandierando un aumento del PIL in tutta l’Unione Europea dello 0,48%. “La cifra, di per sé già modica, non corrisponde al vero”, spiega Alberto Zoratti, “si tratta di uno 0,48% medio, che comincerà a farsi notare dal 2027, quindi dopo dieci anni di implementazione del trattato. Nel frattempo, a cosa dovrà rinunciare l’Italia e quali saranno le conseguenze visibili nella vita di tutti i giorni?”
Stati Uniti e Unione Europea hanno una visione radicalmente diversa del mercato del lavoro e della produzione. Se abbassare i dazi e avvicinare gli standard è auspicabile, pensare di uniformare normative ed etica è quasi filosoficamente impossibile. Un esempio importante è il principio di precauzione. “Si tratta di una regola importantissima, presente già nel Trattato di Maastricht”, continua Zoratti, “e che impone all’Europa di non mettere in commercio prodotti che potrebbero rivelarsi dannosi per la salute dei consumatori”. È una sorta di principio cautelativo, assente in America, dove al contrario la sicurezza è affidata non al produttore ma al consumatore. “Negli Stati Uniti, se non c’è la certezza scientifica che un prodotto possa fare male, allora è possibile metterlo in commercio”, di conseguenza il TTIP produrrebbe in Europa una riduzione generale degli standard di sicurezza alimentare e ambientale.
Saranno riviste anche le norme riguardanti la proprietà intellettuale. Il rischio è di ricadere nei meccanismi del naufragato ACTA e consentire ai colossi multinazionali di attingere indiscriminatamente al bacino di dati e informazioni provenienti dalla rete. Ma non solo. “Un’eccessiva protezione dei diritti di proprietà, un uso sconsiderato dei brevetti, consentirà alle grandi industrie farmaceutiche di arginare la produzione di farmaci generici, e quindi più economici, generando un vero e proprio monopolio legalizzato, livellando i prezzi verso l’alto, a spese dei sistemi sanitari nazionali”.
Risponde allo stesso principio, la tutela delle indicazioni geografiche protette. “Il governo italiano si batte per la protezione delle tipicità, ma questo non basta”, spiega Zoratti. Principalmente per due motivi: gli americani non hanno alcun interesse a tutelare le indicazioni geografiche protette. Negli Stati Uniti, esistono nomi comuni registrati come marchi, un esempio per tutti il “parmesan”, considerati come tipicità, in questo caso come Made in Italy. Agli americani basta questo. E poi, solo una minima parte delle produzioni agro-alimentari italiane rientra nelle tipicità, il resto sarà spazzato via dall’invasione di prodotti esteri. Il settore agro-alimentare è, infatti, tra i più penalizzati dal TTIP: l’armonizzazione degli standard condurrà a un livellamento verso il basso della qualità e sugli scaffali di ogni supermercato europeo i consumatori troveranno OGM, carne farcita di steroidi, volatili sterilizzati chimicamente e tutti i nuovi ritrovati delle politiche bio-tecnologiche che industrie come la Monsanto portano avanti con orgoglio da decenni. Tutto questo ai danni del consumatore e dell’ambiente. Standard al ribasso importerebbero in Europa le normative americane per un vero e proprio attacco sferrato all’agro-alimentare italiano, che farebbe tabula rasa delle piccole e medie imprese italiane, o francesi, i cui prodotti non troveranno più mercato, non solo in America, ma anche in Europa.
Non resta che sperare nell’aumento dei posti di lavoro o in una maggiore mobilità tra le due sponde dell’Atlantico. Ma anche qui le previsioni non lasciano ben sperare. “Oltre al rischio di delocalizzazione di numerose imprese negli USA, per approfittare di una manodopera a buon mercato, si teme che i diritti dei lavoratori, voce esplicitamente inserita tra le barriere non tariffarie da abbattere, possano conformarsi alle logiche americane”, al famigerato Rights to Work, che implica un sistema sindacale meno potente e la privatizzazione delle entrate previdenziali.
Servizi, appalti, investimenti
“Il TTIP è un contratto come tutti gli altri: tutto ciò che è scritto è specificato, quello che non è scritto è aperto a libera interpretazione”, chiarisce Zoratti. Non è escluso quindi che anche i servizi pubblici come sanità e istruzione possano diventare un asso nella manica da giocarsi in sede di trattative. L’unico servizio esplicitamente fuori dalle trattative è l’audiovisivo, grazie alla Francia. Nel 1998, infatti, il governo francese si oppose all’accordo sugli investimenti nell’audiovisivo che metteva in discussione il suo diritto e la possibilità di finanziare l’industria culturale e cinematografica nazionale. Il rischio è che si possa procedere con la privatizzazione di servizi tradizionalmente pubblici, uniformandosi alle logiche americane. E, se ciò non dovesse accadere, un altro trattato si prepara in gran segreto, dedicato esclusivamente ai servizi pubblici: il TISA (Trade in Services Agreement), venuto allo scoperto la scorsa estate grazie alle rivelazioni di Wikileaks, un accordo sulla liberalizzazione della finanza e la privatizzazione dei servizi pubblici.
Tornando al TTIP, a mettere in allerta le imprese è anche la gestione degli appalti. Negli appalti pubblici, in Italia, si cerca di porre un freno alla logica del massimo ribasso e favorire i fornitori locali e le piccole imprese, perché le risorse economiche restino sul territorio. Un principio che scardina le logiche del libero mercato e sarà eliminato da ogni gara d’appalto, anche pubblica, con la ratifica del TTIP. “Le imprese europee potranno finalmente partecipare agli appalti americani”, rassicura la Commissione, ma è vero soprattutto il contrario, le aziende americane avranno accesso libero agli appalti europei, stravolgendo un mercato che, soprattutto in scala regionale o provinciale, si autoalimentava dando lavoro alle imprese locali.
In ultimo, è un’altra sigla a destare agitazione: ISDS (Investor-to-State Dispute Settlement), una sorta di arbitrato internazionale, un tribunale privato nato negli anni Cinquanta, con il nobile intento di proteggere le imprese straniere dagli espropri della decolonizzazione, trasformatosi in un’arma giuridica al servizio delle multinazionali. Ricordiamo due casi emblematici: la Philip Morris che fa causa all’Australia per aver lanciato una campagna nazionale contro il fumo, o ancora la Veolia che cita in giudizio lo stato egiziano per aver votato un incremento salariale. “Questo consentirebbe alle imprese straniere di avere le chiavi in mano sul territorio nazionale, una vera e propria privatizzazione legalizzata della giustizia”.
Il problema della segretezza
“Il nemico più grande del TTIP è l’informazione”, conclude Zoratti. “Tutti possiamo fare qualcosa per fermare questo trattato: informare, informarci, postare sui social network, partecipare agli incontri, ma soprattutto riprendere in mano il diritto di essere cittadini e attivarsi in prima persona senza più delegare”. La posizione della campagna Stop-TTIP è chiara: nessuna mediazione, il trattato va fermato e, per questo, è necessario non solo informare ma restituire ai cittadini la consapevolezza del proprio potere. “Con la sola forza della società civile siamo riusciti a chiedere più trasparenza e abbiamo raccolto più di un milione e mezzo di firme”, continua, “in America, inoltre, cominceranno tra poco i primi passi delle presidenziali, mentre in Europa, sta crescendo un forte movimento civile di opposizione e anche il Parlamento Europeo è più euroscettico di quanto non si creda, le trattative sono ancora aperte”.
È sufficiente controllare il sito della campagna per leggere i documenti raccolti, studiarne gli approfondimenti ma soprattutto seguire la capillare rete di incontri dedicati alla sensibilizzazione e parteciparvi. Per uscire dalla virtualità del presente, perché gli eventi siano anche e soprattutto in carne e ossa, e soprattutto per esercitare attivamente uno dei diritti più sottovalutati, quello all’informazione.
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