Sopra, il cielo grigio, le architetture del Nord Europa e le insegne in francese e fiammingo. Sotto, le persone, i negozi e i colori di ben altre latitudini. «Sorridete, siete a… Matonge», recita un cartello sulla via principale dello storico quartiere africano di Bruxelles. È qui che Giacomo Toschi ha creato il suo angolo di Emilia. Italiano emigrato in Belgio, questo ragazzo alto, magro e sorridente si è ritrovato ad aprire la sua Osteria bolognese nel bel mezzo del cuore africano della capitale d’Europa. Senza volerlo.
«La scelta è stata casuale. Non avevo in mente di venire qui, ma oggi ne sono assolutamente soddisfatto», spiega, stanco ma contento.
In uno dei rari giorni di chiusura, racconta con il suo forte accento bolognese, stando in piedi tra il bancone con gli affettati e la decina di tavoli che riempie l’unico locale dell’osteria. Un luogo piccolo, ma accogliente, con le pareti gialle, le finiture rosse e due grandi vetrate dalle quali i clienti possono sbirciare incuriositi all’interno.
Oggi, ad oltre un anno dall’apertura, «per cenare qui bisogna prenotare con diverse settimane di anticipo» aggiunge Giacomo con orgoglio. Poi, finito il caffè – rigorosamente un espresso all’italiana – , si rimette al lavoro. Controlla la dispensa, chiama in Italia per ordinare i prodotti che mancano e che fa arrivare appositamente dall’Emilia, discute con i genitori che sono venuti a trovarlo e gli stanno dando una mano a fare qualche piccola riparazione.
La sua è una storia di emigrazioni che si intrecciano nel tempo e nello spazio, che si sommano e stratificano, che raccontano la Bruxelles di oggi, di ieri e di domani.
A partire da un piatto di tagliatelle col ragù alla bolognese o da una porzione di pollo con salsa di arachidi poco importa. Perché, a Matonge, oggi, si possono gustare tranquillamente entrambi a pochi metri di distanza. A farlo sono belgi di origine congolese e funzionari delle istituzioni europee, studenti in Erasmus e turisti di passaggio, giovani bruxellois alla moda o donne rwandesi dai colorati vestiti tradizionali. Ma anche trentenni bolognesi stanchi del «provincialismo» della loro città d’origine, proprio come Giacomo, che ha deciso di diventare uno degli 82mila italiani (il dato più alto degli ultimi dieci anni) che nel 2013 ha lasciato il nostro Paese.
«Dopo anni di lavoro nel settore della ristorazione come dipendente, avevo voglia di respirare un’aria diversa, meno provinciale» ricorda questo trentenne con la barba curata e i corti capelli bruni che iniziano a mostrare qualche punta di bianco. «Bruxelles si è rivelata perfetta: vicina, ma internazionale. E poi ci abitava già mio fratello, che lavora al Parlamento Europeo».
Lasciate le miniere della Vallonia del secondo dopoguerra, gli emigranti italiani ormai da anni arrivano in Belgio soprattutto per trovare posto nelle istituzioni Ue o nei tanti servizi ad esse connessi, formando una comunità che, tra vecchi e nuovi arrivati, conta oltre 250mila persone (dati Aire 2012). Molti di loro sono clienti di Giacomo. Non solo i soli però.
«Ormai abbiamo una clientela variegata sia per età che per nazionalità. Certo, rimane uno zoccolo duro di italiani. A loro dico sempre che, quando entrano qui, devono sentirsi a Bologna, con le tagliatelle fatta in casa, i salumi e i vini importati e con la vera pasta alla «bolognese», mica quella con le polpette che spacciano in molti posti turistici. Poi, trascorse un paio d’ore in un’atmosfera calda e informale, possono prendere la porta e tornare a Bruxelles». O, per la precisione, a Matonge, che della capitale è una zona a suo modo storica, capace di raccontarne passato, presente e futuro.
Il nome viene dall’omonimo quartiere di Kinshasa, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire ed ex colonia belga, ma, per quanto la zona negli ultimi decenni abbia scontato una fama non troppo raccomandabile, non è sempre stato sinonimo di degrado e insicurezza. Anzi.
Matonge nasce come luogo di passaggio e divertimento per i congolesi ricchi che, dopo l’indipendenza, nei primi anni sessanta potevano permettersi di frequentare Bruxelles. Simbolo di quell’epoca era la discoteca Mambo che, allora, era meta di diplomatici, uomini d’affari, politici e artisti mentre, oggi, è ancora aperta a pochi passi dall’osteria di Giacomo, ma in tono decisamente minore.
«All’inizio Matonge mi faceva paura» confessa il ristoratore.
«La conoscevo, capitavo qui a volte, ma non mi è mai passata per la testa l’idea di aprirci un ristorante. Poi, per una serie di coincidenze, ho trovato questo locale, mi sono innamorato di questo spazio e, complice l’affitto non esorbitante, mi sono deciso a prenderlo. Certo, qualche timore legato alla sicurezza e alla clientela c’era».
La cattiva reputazione del quartiere, più o meno meritata, si è andata creando a partire dagli anni Novanta, con l’arrivo nell’ex madrepatria di molti rifugiati dallo Zaire e dal Rwanda, ma anche di numerosi immigrati da altri Paesi dell’Africa francofona. Sono loro che, non per divertimento ma per necessità, hanno preso in maniera stabile il posto dei connazionali più abbienti, rilevando le attività commerciali della zona lasciate da molti belgi. Sono loro, o meglio, alcuni di loro che, in condizioni socio-economiche precarie hanno creato diverse bande giovanili, responsabili dello spaccio di droga e di alcuni episodi criminali. E sono ancora loro che, per contro, hanno fondato realtà sociali e culturali, impegnate in favore della conoscenza reciproca e dell’inclusione sociale.
Oggi Matonge, posta tra le sedi delle istituzioni Ue, a nord est, e il benestante sobborgo di Louise, a sud, è un mix di tutto questo. È una porzione di città per le cui vie si alternano boutique di sgargianti tessuti africani e gallerie d’arte contemporanea, agenzie di viaggi dove si prenotano voli per tutta l’Africa e locali alla moda nati da poco, centri culturali come il Kuumba (nelle foto sotto, alcuni clienti), che organizza eventi e tour guidati alla scoperta del quartiere, e negozi aperti 24 ore gestiti da immigrati asiatici che vendono cibi e bevande africani, money transfer e parrucchieri, fast food camerunensi dove si pranza con qualche euro e ristoranti senegalesi turistici e ben più cari.
Giacomo ci si è ritrovato in mezzo. Ma non si può dire che gli sia andata male. «All’inizio mi immaginavo chissà cosa. C’era gente che mi diceva “Ti chiederanno il pizzo, Non ti lasceranno lavorare” e, invece, niente, niente» scandisce deciso.
«Non ho mai avuto inconvenienti, mai nessun episodio spiacevole. Anzi, tra ristoratori e negozianti ci conosciamo tutti e c’è molta protezione reciproca. Certo, ci sono alcuni spacciatori, ma non danno mai fastidio. Tutti sanno chi sono e cosa vendono (soprattutto marijuana n.d.r.). Purtroppo o per fortuna, fanno parte anche loro del quartiere». Così come da qualche tempo a questa parte fanno parte del quartiere anche alcuni colleghi di Giacomo che hanno scelto questa zona di Bruxelles per aprire ristoranti e bar, facendo scrivere al Guardian che Matonge è diventata «un’area vivace, calamita per i giovani belgi e alcuni eccentrici euroburocrati». A confermarlo lo stesso Giacomo. «Il quartiere sta diventando sempre più movimentato. Ci sono tante occasioni di incontro, come il brocante, che una volta al mese consente a ristoranti, bar e negozi di occupare le strade chiuse al traffico, migliorando decisamente la qualità della vita. Senza contare che hanno aperto diversi nuovi locali fighettini e anche di questo gli affitti ne stanno risentendo, alzandosi».
A cinquantacinque anni dall’indipendenza del Congo che ne ha di fatto sancito la nascita, il cuore africano di Bruxelles sta vivendo una sorta di gentrification, un processo di rigenerazione e rinnovamento che, per ora, ha effetti evidenti dal punto di vista sociale più che urbanistico.
«Una volta – riflette Giacomo – la zona realmente africana del quartiere era molto più ampia, mentre ora si va riducendo. Penso che fra cinque, dieci anni non ne vedremo più manco uno dei parrucchieri che oggi affollano la zona di Galerie d’Ixelles».
Anche la composizione degli abitanti è cambiata nel tempo, da ben prima che arrivasse Giacomo. Gli afro-belgi che gravitano intorno a Matonge per la loro vita lavorativa e sociale rimangono molto numerosi, ma sempre meno quelli che qui risiedono. Vive ad Anderlecht il trentenne ivoriano che lavora in uno dei ristoranti etnici segnalati dalla guida Lonely Planet. Vive a Forest la giovane che si occupa di un progetto d’inserimento lavorativo per i ragazzi del quartiere. Vive non si capisce bene dove, ma non vicino, lo spacciatore che offre del fumo all’incrocio tra rue Longue Vie e rue Solway. Vive addirittura nelle Fiandre, a quaranta minuti di macchina da Bruxelles, l’uomo che qui ha da poco aperto un negozio di abiti e oggetti usati, ma che a Matonge viene anche per suonare con il suo gruppo.
In compenso, le migrazioni susseguitesi nel corso del tempo, hanno reso oggi Matonge «un vero crocevia multiculturale dove vivono congolesi, belgi, guineani, pakistani, libanesi, e latino-americani». La definizione è di Reflexions, un sito di divulgazione promosso dall’Università di Liegi, che ha intervistato la ricercatrice Sarah Demart, da tempo impegnata a studiare questa zona. A suo parere, «l’evoluzione territoriale e sociale di Matonge è legata a due dinamiche opposte». Da un lato, c’è la gentrification incoraggiata dalla posizione del quartiere, dall’altro, un «multiculturalismo» che potrebbe far tornare la zona interessante, ma che è «ancora da elaborare». Nel mezzo, gli storici abitanti congolesi, scettici nei confronti di una sua rinascita e i nuovi arrivati come Giacomo, che invece ne sono entusiasti. Anche se, confessa il ristoratore, «di clienti neri ancora non ne ho avuti».
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