Sempre più sociologi si stanno interessando al fenomeno “Libano”, e se pensate che abbia a che fare con guerre religiose e terroristi barbuti siete decisamente fuori strada.
Negli ultimi anni si è assistito all’esplodere di un fenomeno che potrebbe sembrare quasi marginale rispetto ai tanti problemi politici che infestano il paese, ma che per molti rappresenta una minaccia concreta per l’identità del popolo libanese: l’eccessivo ricorso alla chirurgia estetica.
In un paese con poco più di 4 milioni di abitanti si effettuano ogni anno un milione e mezzo di operazioni di chirurgia estetica, senza contare i ritocchi meno invasivi, botox e fillers in primis, di cui non esistono dati ufficiali.
Negli ultimi anni a Beirut è triplicato il numero di cliniche specializzate, i costi competitivi attirano sempre più clienti da tutto il Medio Oriente e non solo; qui infatti un qualsiasi intervento di chirurgia estetica costa all’incirca un quarto rispetto ad alcuni paesi occidentali e, in media, la metà rispetto all’Europa.
Secondo i dati a disposizione, la rinoplastica, ossia il rimodellamento del naso, è l’intervento più diffuso tra le giovani libanesi che, pur di avere un naso definito “all’occidentale”, vanno sotto i ferri per la prima volta già in età adolescenziale. Il leggermente ricurvo naso mediorientale sta letteralmente sparendo, i caratteristici tratti somatici di un popolo intero appaiono sempre più standardizzati e snaturati.
Difficile dire se esista un parallelismo tra perdita di identità nazionale e rifiuto delle proprie caratteristiche fisiche, ma in molti sono a puntare il dito contro l’Occidente,colpevole di voler imporre al resto del mondo il proprio modello di bellezza.
Tanti sono i sociologi impegnati a studiare il fenomeno, preoccupati non solo per i cambiamenti fisionomici, ma anche per quella che sembra essere divenuta una vera e propria ricerca ossessiva della perfezione fisica.
C’è chi sostiene che dietro ci sia il trauma mai risolto scaturito dai conflitti che degli anni settanta in poi hanno afflitto il paese; altri invece accusano il bombardamento pubblicitario delle cliniche di chirurgia estetica stesse che, esaltando un modello di bellezza femminile sempre più vicino ai canoni europei e assolutamente privo di imperfezioni, fanno leva sulle insicurezze fisiche delle donne.
Alcuni sociologi teorizzano che la disparità tra donne e uomini, essendo un consistente numero di quest’ultimi morti nei conflitti o emigrati all’estero, abbia incrementato la competizione tra le donne nubili, disposte a tutto pur di battere la concorrenza e accaparrarsi i pochi uomini sul mercato.
Certo è che camminando per le strade di Beirut è evidente quanto comune sia la chirurgia estetica tra le giovani donne libanesi che, con vanto, esibiscono i frutti dei loro ritocchi.
Il documentario Cut. Copy. Paste di Cynthia Ghazali, libanese cresciuta negli Stati Uniti, analizza il fenomeno della ricerca ossessiva della perfezione fisica nel suo paese di origine attraverso le testimonianze di donne che decidono di andare sotto i ferri.
Giovani e più attempate, tutte sono convinte che in nome della felicità valga la pena soffrire un po’.
Non sembra la vanità fine a se stessa a spingerle a sottoporsi a numerosi interventi nell’arco della vita ma piuttosto la paura di non essere accettate dal proprio compagno e dalla società intera.
La chirurgia insomma come antidoto per l’infelicità, rimedio artificiale contro la paura di rimanere soli? O, parafrasando il meraviglioso personaggio almodovariano di Agrado, semplicemente la ricerca disperata per assomigliare il più possibile all’immagine che ognuno ha di sé?
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