Parole in esilio/Perekotipole

Vi sono parole che esistono solo se pronunciate in lingue d’origine

Perekotipole
Il corridore nel deserto
Ucraino

‘Perché il tuo dolore sorride?’
Anton si richiama d’improvviso, da lontano. La domanda lo accusa, inaspettata, quasi crudele.
‘Perché non è un dolore. E’ l’attesa.’ risponde, a labbra brevi, costretto.

Avrebbe preferito non parlare. Soprattutto non farsi leggere il volto da una voce che gioca all’indovina. Si scuote di un moto indisposto. Accenna a continuare il suo silenzio. Ma gli nota un qualcosa di scomposto. E’ come il silenzio prima di un’esecuzione. pensa Solo che, ora, invece di un’attesa, ne ho guadagnate due. Parlerà, ancora?

‘Allora è un’attesa triste, la tua. Sorridi come se non ti restasse altro. Li ho già visti questi sorrisi. Ma abitavano volti diversi dal tuo.’
Fuori la notte si recita a fiocchi. E Anton la guarda, arreso. Piuttosto che ore vuote, meglio ascoltare confessioni, pensa.

‘Diversi come?’ chiede, poi. Gli risponde un silenzio rabbuiato. Poi la voce continua. ‘Solo, diversi.’
E si ferma, come interrotta. Anton si volge verso la voce. L’ha vista entrare prima, nella sala d’attesa. Ombra lunga, occhi neri, come l’anima di un violoncello. Sentirla parlare, ancora. Spera. Ha come un canto inselvatichito, nel suono. Sempre sul punto di sfuggirle via.
‘Dove devi andare?’ domanda.
‘Non devo andare in nessun luogo’, gli risponde la voce, con ironia. ‘La domanda giusta è dove voglio andare.’

‘Allora dove vuoi andare?’
‘Via.’ Tace e poi riprende. ’Via dal cielo di Berlino, che sembra volermi cadere sul volto, come cenere. Tu?’
‘Nel deserto. Namibia.’
Rallenta il suo respiro. ’Chi sei?’, gli domanda.
Lui sorride. ‘Anton.’ La voce dissente. ‘Non il nome. Chi sei.’
Anton si smuove, stupito. Sente, ai confini dei pensieri, un monito.
‘Suono la tromba.’

‘Lo dici come se non ti conoscessi. Ti chiedo una storia. La tua. Sai raccontarla?’ La voce respira, piano.
Anton guarda oltre il vetro. Atterrati, sotto il tormento della neve, gli aerei sembrano solo vuoti a rendere. E’ lunga, ancora, la loro attesa.
‘Forse’ risponde, poi. ‘Ma avessi saputo che avrei dovuto confessarmi, avrei fatto più pratica in Chiesa. Ora posso solo improvvisare’, ironizza. La voce sorride. E Anton si stupisce, di riuscire persino a sentire il rumore di quel sorriso. Poi inizia.

‘Sono nato a Kiev. E come ho detto a mio padre a vent’anni, non volevo morirci. Ho cominciato a suonare subito, per sgomento. Era, credo, l’unica salvezza che mi conoscevo.
Ho scelto la tromba, perché avevo sempre un respiro in più. Polmoni larghi, dicevano i maestri. Io preferisco chiamarlo fretta di vivere.’
‘Non è fretta di vivere, se cedi i tuoi respiri per qualche nota. E’ rassegnazione.’ Si avvelena, la voce, di un filo di scherno.

‘Forse. Ma per qualche nota viva, ci si rassegna anche volentieri.’
La voce si addolcisce. ‘Per chi sei venuto a Berlino?’
Anton sente nascergli furioso, un desiderio di liberazione. La voce ha una cura per il suo passato. Non conoscerla, sembra un dono che non giudica.

‘Per me.’ risponde Anton. ’Dopo l’86, Chernobyl era ovunque, il ricordo di una morte precoce. Mio padre piangeva il nostro popolo. Io vedevo occhi spalancati nell’orrore, anche la notte. Non riuscivo più a suonare, senza che sembrasse una rinuncia al rispetto. Volevano tutti la quiete che si riserva ai morti. Ma la vita mi sembrava tanto più vicina del vuoto ch’era attorno.

Mi sono serviti tre anni, prima di liberarmi. E poi, sono venuto qui. Berlino. E la musica, la libertà. Una rinascita, finalmente. Sono rimasto, suonando in orchestra. Ho preso per metronomo la pioggia che annega Berlino ad ottobre. Per pubblico, i figli di una città non più mutilata. Perché tutti, in un modo o nell’altro lo eravamo. Avevo, infine, la mia vita quotidiana. Ma il mio padre non mi ha mai perdonato. ‘E’ tradimento’, diceva. Ancora ora mi chiama ‘senza patria’, quando gli si ricorda di avere un figlio.’
Anton, si sente d’improvviso, di troppe parole. E pensare, che mi ero vietato d’avere di nuovo il petto così amaro per lui. E questa donna, ha nella voce una tentazione vibrante. Le ho detto più di quanto non abbia detto a Hanna.

‘Agli occhi di chi stai pensando, ora?’ palpita la voce.
‘Hai una vera passione per le domande scomode.’ sorride Anton.
‘Non scomode. Per quelle dimenticate.’
‘Allo sguardo di Hanna. Agli occhi con i quali mi ha lasciato partire.’
La voce si vena di tenerezza. ‘E’ fortuna, poterli ricordare. Come l’hai conosciuta?’

‘Per caso. Per una parola di troppo. La mia, una volta tanto. Eravamo all’edicola ed io avevo preso il giornale. Prima pagina, politico dal volto crudo e le parole giuste. Ho pensato ‘Ancora abbiamo il coraggio di credergli. Ma si sa, non si rinuncia alle illusioni, altrimenti poi a chi daremmo la colpa, quando ne moriamo.’ Ho scoperto, poi, sentendola ridere, di averlo detto a voce alta. E prima che tu me lo chieda, lei è una professoressa. Insegna storia. Anzi, forse anche più di questo. Vive, la storia.’
‘E crede anche, nella storia?’

‘Crede nel destino. E qualche volta lo chiama Dio.’
La voce annuisce. ‘Anche io credo nel destino.’
Anton sente, tacitata dietro alle parole, una storia che non si vuole raccontare. Poi lei riprende ‘ E che occhi hai lasciato?’

‘Occhi che non volevano vedermi andare. Non per la seconda volta.’ Anton desidera, sospeso, che la voce gli faccia quella domanda. L’unica che ha una risposta pronta. Dolorosa, ma pronta.
‘Perché?’
‘Nel deserto, vado a correre, per la seconda volta.’
‘La prima ti era sembrata un miraggio?’ scherza la voce.
’No, ma la prima, per ritornare, ho dovuto aspettare di morirne.’

Anton si pente subito di averlo detto. La voce sembra aver perso ogni suono. Ha il volto accordato, i polsi chiusi. Per la prima volta da quando gli ha parlato, la voce ha anche un corpo. Ma è un corpo muto. Gli ricorda, per un tremito delle dita, Hanna, seduta al tavolo, con la fronte amara. E ancora una volta Anton sente la colpa, portata a fatica. Poi, dal buio, di nuovo. ‘Perché?’.

Lui esita, prima di rispondere. Quanto ancora posso dire, prima che questa sala, mi veda di parte in parte, trapassato, non difeso. Prima che questa voce, scomponga la mia solitudine. Poi decide.
‘Fuggo. Quale luogo migliore per farlo. Non c’è che un infinito, ristretto tra dune. Un cielo piegato al vento. Mi sono stancato dell’abitudine appena ho saputo che si poteva viverne a lungo. Solo che non esistono grazie o sconti sulla condanna. Pure, la desideravo, accanto a Hanna. Ma bastava solo per accontentarmi. Corro, sperando che non mi raggiunga quella che altri chiamano felicità.

La prima volta, mi avevano ritrovato la quinta notte. Con l’anima ormai sepolta, tra sabbia e un cielo impietoso. Mi ero ripromesso di non desiderarlo più. Lo avevo promesso anche a Hanna. Ma mentivo. Gli riconosco radici profonde e tenaci, al deserto che mi vuole arso.’ La voce sospira. ‘Hanna?’
Anton sussulta. Gli sembra di sentirla, la voce attristata di Hanna, mentre gli dice: ‘ Cosa ha di così bello la morte? Le corri accanto, dentro il suo ventre più arido. Cosa ha di così bello, la tua morte? Forse solo il mio dolore.’

Si costringe a rispondere: ‘Hanna aspetta che il destino mi salvi.’
Silenzio. ‘Anche Nala, mia sorella, aspetta che io mi salvi.’ Anton la guarda. La voce continua. ‘Sono nomade, di professione. Fotografo volti. Per il dolore di Nala, non ho dimora. Non nella nostra terra, né in nessun’altra. Io non sto.’
‘E adesso?’

‘Nala si sposa. Mi vuole accanto a lei. I piedi nella sua terra rossa. Spera che possano, per incanto, nascermi radici che mi trattengano da lei. Ma io sono fatta di rami. Sempre, solo, verso il cielo.’
La voce sorride, mentre fuori, la notte si sveste. Il cielo sopra Berlino riaffiora e la neve si fa muta.
‘Il nostro volo è di nuovo in programma.’ le dice Anton.
Lei si volta. ‘Il tuo volo.’ Si alza, lasciandolo meravigliato.

‘Nala capirà. Non si vive di illusioni. E il mio ritorno lo sarebbe. Illusione tanto vana, anche. Addio.’
E Anton la vede allontanarsi. Sul volto un destino finale segnato a breve, nell’angolo tra il sorriso e le ciglia. Chiude gli occhi, per dimenticare d’averla, per un lieve istante, amata. Lei, che ha dato tregua al suo cercare. Ma il ricordo della sua ombra rimane, come un miraggio, nel vuoto della sala.
Sola, come un corridore nel deserto di un’esistenza ormai assegnata.



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