Passaggio in Afghanistan

Diari dall’Afghanistan: un racconto da una terra in ricostruzione, lacerata da trent’anni di guerra

Dubai-Kabul. Sono seduta nell’area di attesa del gate per Kabul. Con me, famiglie afghane emigrate in Occidente che portano i figli a visitare per la prima volta il loro paese natale, gruppi di ragazzi in rientro da notti brave negli emirati e qualche appuntamento di affari, biondi americani dalle spalle larghe e le barbe folte barbe che nascondono i giovani occhi pieni di rughe. “Pronto per tornare nella giungla?”, si chiedono tra loro, ed io abbasso lo sguardo, perché capisco la loro ultima destinazione.

L’Afghanistan è una terra ricca di minerali e vegetazione, incrocio di culture e antichi tradizioni. È qui che è nato lo Zoroastrismo, prima religione monoteistica della storia, ed è qui, che molti poeti Sufisti sono nati prima di trasferirsi in Turchia.

Ma l‘Afghanistan è anche una terra in ricostruzione, lacerata da trent’anni di guerra fra grandi potenze e giochi di potere tribali. Più del 60 per cento della popolazione è sotto i 30 anni. Molti di loro, portano con se ancora il fermo-immagine delle gambe scoperte dalle gonne corte durante l’occupazione sovietica, ben ricordando allo stesso tempo, le regole ferree talebane su come curare la propria barba.

Ho deciso di trasferirmi qui perché è questo il vero ground zero della politica globale. La chiamano “Afghan fever”, l’idea di contribuire al modello di sviluppo internazionale più unico nel suo genere. Quattordici anni d’interventi militari e umanitari, più di dieci paesi stranieri presenti sul territorio e tre principali ostacoli che ancora non sono riusciti ad essere superati: sicurezza, corruzione, sviluppo.

Molti dei soldi donati dalla comunità internazionale sono, infatti, serviti soprattutto a pagare alti salari a cooperanti stranieri o aziende di consulenza occidentali più che alla rinascita dell’economia locale. Gli investimenti in Afghanistan ci sono stati e ci sono, ma non rimangono qui. Nella terra corrotta e di nessuno, il capitalismo selvaggio ha preso il sopravvento, abituando i pochi ai soldi facili, e obbligando i tanti a sottomettersi alla corruzione e agli abusi di potere.

Sull’aereo, mentre penso a cosa mi aspetterà, una giovane donna afghana si siede vicino a me. È vestita di un nero elegante, come le donne arabe del Golfo, rivelando solo i minimi dettagli di una libertà fatta di scarpe alte e profumo leggero. I ricami di giochi floreali coprono tutte le lunghezze del corpo, lasciando intravedere unicamente le unghie lunghe e il viso definito da eyeliner e rimmel allungante.

“Mio marito lavora per questa compagnia aerea, è sempre in viaggio, penso che mi tradisca con la sua segretaria tedesca”, racconta. Lei ha 26 anni, un accento britannico dovuto ai molti anni a Londra, e un marito arabo con il quale vive a Dubai. “Lui non viene mai a Kabul, non ha neanche voluto conoscere parte della mia famiglia che vive qui, non si fida degli Afghani”, continua. “Ha paura che lo rapiscano perché è ricco”.

Il viaggio è solo di due ore, ma abbiamo tempo di chiacchiere sui famosi pic-nic a Paghman, località a trenta minuti di macchina da Kabul, dove il fiume rivela le sue bellezze e le famiglie si rallegrano per la ricchezza della cucina afghana. La sua storia non è una storia di abusi, ma di solitudine. Una solitudine concretizzata in un biglietto lasciato sul letto dopo una notte nel lussuosissimo hotel di Dubai, Burj Al Arab: “scusa amore, sono dovuto ripartire per lavoro”.

“Ti piacerà tantissimo l’Afghanistan”, mi spiega cambiando discorso.

Ed infatti è così.

Le strade sono silenziose ma trafficate, come raramente accade nei centri urbani del sud d’Europa o dell’estremo Oriente. Qui i check-point a differenza del sigillato territorio kurdo-iracheno, lasciano passare senza troppe domande volti e macchine familiari, abituati ad accompagnare gli occidentali per le strade più sicure della città. Nonostante la minaccia delle auto-bombe, infatti, non esistono licenze ufficiali che garantiscano la legittimità del vero e unico proprietario di un veicolo. I documenti qui, sono spesso basati su una burocrazia fatta da carte scritte a mano e accordi non ufficiali, perché’ ci si fida più dell’istinto, che della legalità.

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