di Christian Elia
“Tutto il popolo palestinese è il nemico, compresi i loro vecchi e le loro donne, le loro città e i loro villaggi, le loro proprietà e le loro infrastrutture”. Questo è il testo di un post di facebook, datato luglio 2014, mentre si preparava l’operazione militare israeliana Margine protettivo su Gaza. La persona che lo ha postato si chiama Ayelet Shaked ed è il nuovo ministro della Giustizia d’Israele.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha vinto di misura le elezioni anticipate del 17 marzo scorso, dopo 42 giorni di faticose trattative è riuscito a formare il nuovo governo, a poche ore dalla scadenza del mandato esplorativo concesso dal presidente d’Israele, Reuven Rivlin.
Un governo che, per capirci, è quello più a destra della storia di Israele. Dal 1948 a oggi, mai un tale schieramento di nazionalisti e ultraortodossi si sono trovati a governare il Paese. La coalizione, infatti, oltre al Likud di Netanyahu, conta su HaBayit HaYehudi, partito del leader Naftali Bennet (che conta anche sulla Shaked), su Kulanu, di Moshe Kahlan, sullo Shas e sul partito Unione per il Giudaismo e la Torah. Totale: 61 seggi, appena uno più della metà dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano.
Perfino Avigdor Lieberman, leader di Israel Beytenu, ex ministro degli Esteri noto per le sue dichiarazioni islamofobiche, ha ritenuto questa coalizione troppo legata agli ambienti ultrareligiosi. E a quelli dei coloni, che occupano illegalmente le terre che le Nazioni Unite e il diritto internazionale assegnano al futuro Stato di Palestina.
Non bisogna immaginare, però, un Netanyahu ostaggio dell’ultradestra per colpa di un sistema elettorale israeliano che non concede vittorie con premi di maggioranza. Perché Netanyahu, in anni e anni di politica, ha dimostrato con i fatti che non esiste ‘falco’ che possa insegnargli nulla in termini di spietatezza.
La notizia, quindi, è che Israele continua a smarrirsi nelle sue paure, fomentate dalle istituzioni e dai media, che rendono la società israeliana sempre più paranoica e aggressiva. Un governo del genere fa venire i brividi e allontana sempre di più l’idea di un accordo che ponga fine all’occupazione della Palestina.
Non è detto che questo esecutivo, considerati i numeri risicati, abbia vita lunga. Herzog, leader laburist, e Lapid, leader centrista, hanno respinto al mittente le offerte di governo di unità nazionale, proprio fiutando le difficoltà politiche di Netanyahu, ma per ora questo è l’assetto.
Un assetto che esprime le più retrive istanze di una parte della società israeliana: nessun rispetto per i palestinesi, i diritti umani come balocco per pacifisti, la violenza come unico linguaggio verso la Palestina, l’occupazione illegale come un diritto di origine divina.
KNESSET (120 SEGGI) DOPO ELEZIONI MARZO 2015
Maggioranza del governo Netanyahu
Likud – 30 seggi
Kulanu – 10 seggi
HaBayit HaYehudi – 8 seggi
Shas – 7 seggi
YaHadut HaTorah – 6 seggi
Opposizione
HaMahaneHaZioni – 24 seggi
HareshimaHaMeshutefet – 13 seggi
Yesh Amid – 11 seggi
Ysrael Beiteinu – 6 seggi
Meretz – 5 seggi
Uno scenario da incubo, che allontana le sempre più fragili ipotesi di soluzione diplomatica del conflitto, proprio in una fase politica che avrebbe avuto bisogno di leader coraggiosi. Perché è innegabile che in questo momento Hamas è in difficoltà a Gaza. Il brand dell’Isis è molto lontano, ma non è un mistero che Hamas assiste con crescente preoccupazione al rafforzarsi di movimenti estremisti.
E come stupirsi, nel momento che Gaza è sempre più un inferno, un carcere a cielo aperto, dove il radicalismo potrebbe trovare un consenso crescente. Per ora Hamas, con il pugno di ferro, tiene sotto controllo la situazione, ma i movimenti (nonostante la repressione egiziana dall’altra parte) ottengono consenso. Un governo israeliano che volesse davvero portare avanti un accordo con i palestinesi troverebbe oggi un tavolo negoziale disponibile, molto più che in altri momenti della storia. Anche perché i radicali, molto diversi da Hamas, anche se ci si ostina a raccontare altro, vedono come il fumo negli occhi le relazioni tra Hamas e l’Iran.
Un’agenda condivisa tra Hamas e Israele? Sarebbe una forzatura immaginare uno scenario del genere, ma di sicuro Isis e tutta la galassia del radicalismo sunnita che nel brand Isis si riconosce potrebbero essere il comune problema che potrebbe portare le classi dirigenti israeliane e palestinesi a trovare una soluzione di lungo periodo, rispettosa dei diritti dei palestinesi e con garanzie per le ossessioni securitarie israeliane.
Di sicuro, però, non accadrà con questi personaggi al governo. Tocca ripeterlo: Netantyahu non è il ‘povero’ ostaggio dei radicali. E’ lui per primo un radicale senza tentennamenti. Ma la politica, a volte, in Israele, ha visto proprio nel Likud (paradossalmente) il partito capace di cogliere le occasioni politiche. Con questi compagni di viaggio, la strada è solo quella verso il baratro.