Nos faltan 43

Intervista con i parenti di alcuni dei 43 studenti scomparsi in Messico nel settembre 2014

di Roberto Meloni e Cinzia Spallone

Ayotzinapa è una storia che vuole essere raccontata. “Nos faltan 43”. “Ce ne mancano quarantatre”. Quarantatre studenti, amici, compagni, figli. La Carovana di solidarietà per i 43 studenti desaparecidos messicani è passata anche da Milano. In un’intervista a Omar, uno degli studenti della Normale di Ayotzinapa, e Roland, un operatore di una ong messicana per i diritti umani, viene raccontato il perché del loro viaggio in Europa.


Che cosa è successo dal 26 Settembre fino ad adesso in Messico?

Dopo il 26 di Settembre in Messico, con la desaparición (sparizione, ndr) forzata dei 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa e i 3 omicidi avvenuti la stessa notte, è nato un grande movimento che ha fatto proprio il dolore delle 43 famiglie. Questo movimento ha avuto come base fondamentale la dignità delle famiglie di Ayotzinapa, oltre che la struttura e la capacità organizzativa degli studenti del congresso studentesco di Ayotzinapa. Ci sono state molte espressioni di solidarietà e di appoggio e, ad oggi, in Messico, c’è un forte movimento che segnala lo Stato messicano come principale responsabile degli attacchi contro gli studenti. Questo è stato provocato dalla collusione che esiste fra la criminalità organizzata, il narcotraffico, con i tre livelli di governo (municipale, statale e federale, ndr). C’è quindi un forte movimento che pretende la presentación con vida dei 43 studenti (restituzione degli studenti vivi), ma anche la profonda trasformazione delle relazioni sociali nel paese che sono determinate da un governo che risponde ai meri interessi economici e non agli interessi delle persone.


Voi studenti come vi siete mobilitati e come avete agito dal 26 settembre fino ad oggi?

La risposta che abbiamo dovuto dare a quello che era successo il 26 settembre sapevamo che sarebbe stata complessa e molto lunga nel tempo. Non poteva essere un’unica azione, bisognava esplorare molte strade. Siamo stati presi alla sprovvista; noi non eravamo preparati ad una questione come questa, abituati come eravamo sempre stati a delle forme di mobilizzazione che terminavano quando c’era una risposta concreta alle petizioni formali che si facevano. Ci siamo trovati di fronte ad una situazione non negoziabile. E dall’altro lato ci siamo scontrati con un problema che non era solo il nostro, come studenti, ma era ben più grande, a livello nazionale, che superava tutti gli schemi immaginabili, e che ovviamente doveva integrare tutta la popolazione e ai movimenti sociali nel loro complesso. Proprio per questo, come movimento studentesco, abbiamo cercato di articolare il movimento; questa è stata la nostra volontà sin dall’inizio, pur sapendo, con umiltà, che da soli non saremmo riusciti a risolvere un problema così grande. Da quando è nato il movimento lo Stato messicano ha mantenuto una posizione ferma negando le sue responsabilità sull’accaduto. Far si che lo Stato si assuma tutte le sue responsabilità non è solo una questione che riguarda gli studenti, o i movimenti sociali in Messico, ma è una questione fondamentale di diritto internazionale, dove la desaparición forzada (il rapimento) è reato, così come la tortura e gli assassini di questo tipo devono essere condannati; bisogna mettere pressione internazionale. Non è possibile che in una democrazia, in un sistema rappresentativo, i diritti umani vengano calpestati in questa maniera. Noi come movimento studentesco abbiamo giocato un ruolo molto importante in questa mobilitazione, aiutando in particolar modo i genitori (delle famiglie dei 43, ndr) per quanto riguarda la struttura e la logistica della mobilitazione. Sono state la nostra capacità e la nostra esperienza di organizzazione studentesca, accumulate da decenni, ad averci aiutati.


E adesso com’è la situazione in Messico e, in particolare, nello Stato di Guerrero?

Lo Stato di Guerrero è spesso caratterizzato per essere un posto dove la presenza dello Stato centrale si fa sentire utilizzando la violenza. A partire dagli anni 60 e 70 si sono susseguite azioni di violenza sistematica contro le comunità che esigevano l’autodeterminazione dei loro diritti collettivi e del loro territorio. In Guerrero esistono migliaia di casi di persone che sono state vittime della desaparición forzata come risultato dell’implementazione della politica del terrore, di fronte ai movimenti insorgenti, che cercavano di cambiare profondamente le relazioni sociali. Quindi non è casuale che di fronte all’attuale situazione che si vive dalla scomparsa dei 43 giovani di Ayotzinapa la nostra risposta è stata molto articolata secondo una posizione dura e intransigente: se i giovani non verranno restituiti vivi non ci sarà nulla da negoziare e niente di cui discutere. Quello che si esige è la presentación con vida (la resitituzione) dei nostri compagni! Molteplici organizzazioni che esistono da varie decadi nello stato di Guerrero, come il Coordinamento statale dei lavoratori dell’istruzione, o come la polizia comunitaria, hanno potuto aiutarci a chiedere fermamente che le nostre istanze venissero ascoltate. Il movimento sociale è sceso in piazza con mobilitazioni molto dure, esprimendo il malcontento circa la maniera di esercitare il potere che si ha nello stato di Guerrero, anche attaccando direttamente i simboli di rappresentazione del potere come il Parlamento statale, il Palazzo del Municipio o quello del Governo. Il movimento sociale tuttora rifiuta le elezioni che si terranno fra qualche settimana nello stato di Guerrero. La posizione del movimento è che nel Guerrero non ci sono le condizioni per realizzare queste elezioni, perché dopo il 26 di settembre il mondo intero si è reso conto di qualcosa che già noi in Messico sapevamo da tempo, ovvero la relazione, la simbiosi, che esiste fra il governo e il narcotraffico. Il movimento quindi sta boicottando la campagna elettorale, per esempio.

E a proposito dei movimenti sociali, voi di Ayotzinapa avete avuto l’appoggio di altri movimenti in Messico come per esempio gli Zapatisti, o altri movimenti nel paese?
Sin dall’inizio si è cercato di aprire il movimento al coordinamento con altre espressioni e altri prodotti di organizzazioni [sociali]. Il 15 e 16 novembre una delegazione della Normale di Ayotzinapa è stata ricevuta nel Caracol di Oventic dal comando dell’EZLN e dalle “basi di appoggio” che hanno espresso la loro vicinanza verso i padri e le madri di famiglia. C’è stato anche un coordinamento con il Congresso Nazionale Indigena, andando a visitare visitando le comunità indigene [che aderiscono allo stesso]; i popoli indigeni che vivono processi di auto-organizzazione hanno fatto proprio il dolore dei genitori di Ayotzinapa e hanno espresso vicinanza ai movimenti di lotta che nascono dal basso.
I genitori sono stati invitati da parte dei compagni Zapatisti per partecipare in diverse attività. Il 2 e 3 maggio ci sarà (ormai passato alla data di pubblicazione di questo articolo, ndr) un seminario e molte altre attività tanto a San Cristobal de las Casas quanto ad Oventic alle quali sono stati invitati a partecipare proprio i genitori per continuare a far sentire l’appoggio che i popoli zapatisti hanno verso il nostro movimento. Il comando dell’EZLN e le basi di appoggio hanno addirittura ceduto il loro spazio del “Festival Mondiale della Resistenza contro il capitalismo” lo scorso dicembre. Questa è stata la maniera per dimostrare la solidarietà e l’appoggio che si ha verso il movimento e verso la nostra richiesta di presentazione con vita dei nostri compagni.

Vi vogliamo anche chiedere qual è il significato del vostro viaggio qui in Europa? Cosa vi aspettate dagli europei?
Come ti dicevo noi abbiamo l’esperienza nell’organizzazione e abbiamo studiato il movimento sociale in Messico, perché abbiamo capito dall’inizio che la lotta non era locale e non poteva essere neanche solo nazionale. Abbiamo trovato e percepito una solidarietà più ampia anche a livello internazionale. Fino a quel momento però, a livello internazionale l’appoggio però era rimasto disarticolato. L’unica cosa che lo unificava era Ayotzinapa, senza alcun coordinamento fra i vari gruppi di appoggio, ognuno lottando dal proprio paese, ma senza una comunicazione fra di loro. Noi crediamo che, esattamente come abbiamo fatto a livello nazionale, dobbiamo avere un coordinamento fra i movimenti di lotta: articolare la lotta affinché tutti possiamo essere parte di una stessa azione. Dobbiamo spingere insieme questo processo di cambiamento; non dobbiamo solo svegliare le coscienze nazionali, ma è questione di trasformazione [ben più grande]. Questa è la nostra sfida. I percorsi che noi stiamo facendo adesso negli USA, Canada e qui in Europa, sono uno sforzo per unificare il movimento. Ma anche per contarci e sapere su chi possiamo contare e su chi no; rendersi conto di quanti siamo, diagnosticare le forze: capire chi ci appoggia e chi no; capire se siamo tanti o se siamo pochi. Avere quindi una visione reale. Ci è sempre piaciuto camminare coi piedi per terra.
Per noi le carovane internazionali sono strategiche. Sono quelle che rendono possibile la lotta nel lungo periodo in Messico. Nel nostro paese c’è tanta gente che vuole un reale cambiamento e adesso ci sono le condizioni per arrivarci. Per noi significherà fare lunghi viaggi in tutto il nostro paese e sostenere ingenti spese per pagare questi viaggi. La solidarietà internazionale ci può sostenere per le spese di questi, per esempio.
Quello che è successo ci ha trasformati in attivisti politici e finché non ritroveremo i nostri compagni continueremo a fare tutto il possibile, non ci fermeremo.

C’è un’altra lotta da cui avete ricevuto grande solidarietà?

Non so se bisogna compararle. Come diciamo in Messico, non è importante la grandezza, ma quello che si riesce a raggiungere. Grandi o piccole, le manifestazioni ci aiutano allo stesso modo. Grandi o piccole, le braccia che abbracceranno questa lotta ci sono, le sentiamo, esistono. Ognuno con le proprie potenzialità e il proprio impegno, e questo è l’importante. Ovviamente sarà più facile per chi ha delle organizzazioni già costruite, ma non c’è da considerarli più importanti. La caratteristica più importante di questa lotta è l’umiltà, la semplicità: è fatta da persone umili e semplici che riconoscono le proprie potenzialità. È quello che abbiamo fatto noi stessi cercando di migliorare i nostri errori, e questo lascia intendere che sia una lotta seria.

Come è stata trattata la questione di Ayotzinapa da parte dei mezzi di comunicazione ufficiali?

Dipende dalle circostanze. I giornali ufficiali dovunque c’è sangue e cose di cui scrivere a riguardo, sono sempre presenti. Durante i primi due-tre mesi infatti diffondevano tantissime notizie su quello che era successo ad Ayotzinapa. Ma col tempo hanno iniziato a scrivere in conformità con le cose che dicevano le autorità istituzionali. Si sono allineati. A partire del 27 gennaio, con l’ultima conferenza dove si chiude [politicamente] il caso, i mezzi di comunicazione ufficiale, fanno la stessa cosa [e smettono di parlare di noi]. Come anche il governo, i militari e i settori del clero più conservatori del Messico; tutti iniziano ad avere la stessa posizione. Solo i mezzi di comunicazione alternativi continuano a dare voce a quello che è successo, così come anche alcuni media internazionali, e le ONG per i diritti umani che dicono che il tema deve rimanere vivo. È così come agiscono loro. Sapevamo che i giornali principali ci avrebbero dato la parola per poco tempo, e sapevamo che sarebbe finito.
I compagni di Ayotzinapa non si arrenderanno. Non importa con quanta forza cercheranno di reprimerci. Qualsiasi cosa che facciano, che dicano, dovessero anche abbaiare [contro di noi] non ci piegheranno. Erano i nostri amici, i nostri figli. Non ci arrenderemo mai di fronte a questa situazione. E anche se proveranno ad isolarci e stigmatizzarci, anche se cercheranno di lasciarci soli, noi continueremo. Vogliamo che questo sia ben chiaro. È anche per questo che siamo qui: non lasciateci soli.

 

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