Un confine chiuso è un atto di indifferenza
di Gabriella Ballarini, da Ventimiglia
Sono le 12.00 e, durante il pranzo della domenica, in casa mia, non può mancare il telegiornale. Partono le immagini del confine, della Francia e si vedono persone sotto le coperte termiche e la pioggia di questa mattina, insomma, rimango in silenzio, mangio in fretta e prendo la macchina, direzione: ponte san Ludovico, confine di Stato tra Italia e Francia.
Oppure, più semplicemente: vado a Ventimiglia, che si trova a trenta minuti da casa mia. Durante il tragitto sento come la strana sensazione di chi parte da casa per visitare la scena del crimine, di un qualche crimine o come quando si va a dare una brutta notizia, insomma vado e percorro il mio miglio verde da casa al confine.
Arrivo e il sole mi acceca, il sole rimbalza sulle pietre marrone chiaro e mi trafigge lo sguardo. Appena si arriva, sulla sinistra c’è un giardinetto e si incontra il primo gruppo di persone, le uniche che siedono all’ombra, sono somale, eritree, almeno così mi dicono, almeno così mi sembra, provo ad avvicinarmi, ma non ci riesco, dalla mia bocca non escono parole, mi chiudo in un surreale silenzio.
foto di Simone Sarchi
Non ho la macchina fotografica, sfilo dalla tasca il mio cellulare e con l’altra mano prendo il quaderno piccolo e la penna nera, tengo tutto tra le mani e comincio a camminare. Goffa. Cammino e sono proprio goffa. Mi siedo, per non dare troppo nell’occhio, mi siedo e comincio a contare, voglio capire quanti sono, quanti siamo.
Le donne sono pochissime, bambini non ne vedo, qualche ragazzino e ragazzina, quelli sì. Saranno cento o centoventi, forse, perdo molte volte il conto e mi confondo, quello sarà un giornalista? Non lo so, dal bar sento che qualcuno dice: ieri erano 250, ma io non so sulla base di cosa e non capisco nemmeno chi sta parlando, c’è troppa gente, troppe opinioni. Continuo a tacere e camminare.
Tra gli scogli si formano gruppi, piccoli, grandi, qualcuno protegge le sue cose con una coperta termica, una di quelle che avevo visto in televisione, c’è pure quel giornalista, c’è anche quel ragazzo che avevano intervistato. Taccio e due signori anziani mi si avvicinano: Lei cosa fa qui? Che cosa sta scrivendo? Ha un’opinione? Ha un’idea? Vorremmo scrivere anche noi, siamo giornalisti, può darci un aggancio?
Io continuo a non avere parole con cui poter parlare, continuo a stare ferma, seguo i passi di chi si inciampa sugli scogli, guardo l’uomo che guarda verso il mare, quasi a volerlo cercare lui un appiglio, e attorno a lui camminano gli altri, come ombre tra i sassi.
Ombre nude che cercano di lavarsi con l’acqua salata e con il bagnoschiuma che ha portato la croce rossa, si insaponano e con le bottiglie si fanno la doccia e poi attendono che il sole e i 24 gradi di oggi, possano seccare, possano asciugare, che il mare, possa restituire.
Parte un coro: “The sun is sunny the weather is hot we need to pass we are not going back we are not going back we need to go”; Le voci salgono e scendono, per una, dieci, quaranta volte, salgono e scendono e urlano e sussurrano, e cantano in dieci e cantano in tre e cantano in cinquanta e non canta nessuno.
Hanno una bomboletta blu e scrivono sugli asciugamani, sulle lenzuola, scrivono sulle loro magliette bianche: WE NEED TO PASS. WE NEED TO GO. Il mare, oggi, è blu e turchese e dalle pietre sale odore di escrementi e urina, un ragazzo beve la sua Fanta e poi butta la lattina a terra, la polizia sbuffa e delinea altri confini con il nastro rosso e bianco: perché così non parcheggiano qui, perché così passano veloci, perché così magari tra un po’ se ne vanno tutti e ce ne andiamo a casa anche noi. Io continuo a starmene lì, seduta e un paio di ragazzi mi si avvicinano e mi dicono: good morning.
Io provo a rispondere, mi blocco, di nuovo. Tutti parlano con tutti qui, i giornalisti rincorrono i ragazzi sugli scogli, ma io non riesco, ogni tentativo mi si blocca al limite degli occhi, nell’estenuante esercizio di pudore delle mie lacrime, che si ritraggono allo scempio del confine, ai coccodrilli di Ventimiglia che mordono e piangono e non sanno più dove sia la ragione.
Passa un signore francese e chiede: Che cosa succede? Chi sono questi? Sono i rifugiati, risponde un altro, seduto a guardare. E che cosa fanno? Aspettano, aspettano qualcuno che li faccia passare. Tra le miserie di questi 500 metri di costa, si trovano ancora dei tesori. Il sacco di vestiti nascosto in quel buco, i succhi di frutta al fresco che adesso sono le quattro e forse è ora di bere.
C’è un signore che mostra la sua giacca elegante alla fotografa, gliela mostra e poi la piega in due, in quattro, in otto parti, finchè non riesca a stare tra le mani, per conservarla, per trattenerla, per non lasciarla andare via. Tra le miserie di questi 500 metri di costa, marciano scarpe spaiate e sguardi perduti che hanno smarrito il confine.
Io proprio non riesco a parlare. La polizia francese non dice una parola, guarda verso l’Italia e non dice una parola. Lei è una giornalista? Mi chiede un signore, mentre un altro mi guarda e attende la mia risposta. No, rispondo io. Io racconto delle storie, ma quello che vedo oggi, proprio non lo riesco a raccontare.