di Dimitri Bettoni, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
Una rapida lettura del manifesto politico del partito turco HDP (Partito della Democrazia del Popolo) può lasciar pensare che, a due anni dalle proteste che sconvolsero la Turchia, sia infine emerso un organismo politico capace di incarnare lo spirito di Gezi Park e le sue rivendicazioni; non è così.
L’eredità di Gezi Park è molto più complessa, dispersa nei meandri del tessuto sociale dai quali talvolta riaffiora in nuove forme, difficile da confinare negli schemi di un solo partito. E forse i suoi effetti più a lungo termine sono ancora al di là dall’essere completamente manifesti. L’inequivocabile successo dell’HDP è frutto di molte ragioni, tra le quali parco Gezi e le sue idee sono ben lontani dal potersi dire determinanti.
Cosa resta dopo le proteste
Quando calò il rumore delle sirene, quando l’aria si ripulì dei gas lacrimogeni e tornò ad essere smog cittadino e vento del Bosforo, i partecipanti alle proteste del 2013 si chiesero cosa sarebbe seguito, cosa sarebbe cambiato.
Ciò che accadde in quelle settimane di tumulti è stato ampiamente studiato, dei partecipanti si sa che provenivano da ambienti culturali, etnici e sociali molto diversi. Le circostanze li hanno portati a scendere nelle strade accomunati da desideri e bisogni: cura della cosa pubblica e dell’ambiente, democrazia e partecipazione, diritti civili, informazione libera e indipendente. Diversi però erano gli orizzonti e le prospettive di questa eterogeneità, e difficile da cancellare un passato che pesava e pesa tutt’ora sulle profonde divisioni del paese.
Nel vasto mare di internet, ambiente privilegiato per tutti i manifestanti che non avevano più fiducia nei mezzi di comunicazione tradizionali, ci fu un proliferare di iniziative che trovarono un punto di riferimento nella Piattaforma Taksim, dove si cercava di raccogliere e coordinare le richieste della piazza per poi indirizzarle verso un’efficacia politica nelle trattative dirette con il governo.
Quando si allontanò dalle piazze, la protesta cercò di sopravvivere e si rifugiò in luoghi più discreti, più adatti al dibattito, pur senza tornare all’anonimato e all’inazione delle case private. Nacquero i forum di quartiere, realtà più piccole, lontane dai riflettori e dai manganelli, capaci di offrire la giusta dimensione a momenti di discussione e attivismo diretto, concreto, quotidiano.
Il prezzo che questa nuova intimità impose fu la scomparsa dai radar dei media, internazionali prima e nazionali poi, e il disperdersi in una miriade di rivoli ed iniziative scollegate tra loro e di varia natura, concentrate su specifici temi, dall’ambientalismo alla tutela delle singole minoranze. Molte di queste iniziative cessarono di esistere entro pochi mesi, altre invece restarono attive, espressione di una società civile che non era più disposta ad accettare le urne come unico momento di vitalità democratica.
I forum di quartiere non furono certamente l’unico germoglio disperso al vento dagli alberi di Gezi Park. C’è chi pensò di consolidarsi immediatamente in un partito politico, chiamato con poca fantasia Partito Gezi. Un esperimento rivelatosi prematuro, forse figlio di una speculazione politica che cercava la propria fortuna in facili associazioni, e che in definitiva ebbe vita breve e risultati nulli.
In generale, i partecipanti al movimento Gezi Park conservarono le proprie preferenze politiche. Coloro che avevano votato in passato per il proprio partito di riferimento continuarono a sostenerlo, i più attivi cercando di portarvi all’interno le istanze della protesta. È il caso ad esempio dei molti giovani legati al CHP (Partito Repubblicano Popolare) o dei curdi legati al partito pro-curdo BDP (Partito della Pace e della Democrazia). Chi invece non aveva riferimenti politici preferì mantenere una militanza civica senza assumere forme partitiche precise.
Ciò che caratterizzò dunque il periodo post-Gezi furono da un lato la frammentazione e la dispersione organizzativa, dall’altro una circolazione delle idee attraverso nuove strade, soprattutto tra i giovani e su internet, perché ciò che era accaduto non si poteva cancellare né dimenticare.
La nascita e il successo dell’HDP
Attraverso il proprio manifesto politico, l’HDP ha sicuramente fatto proprie molte delle richieste di Gezi Park. La dirigenza della nuova formazione ha individuato una fetta di società che, lontana sia dai nazionalismi storici sia dalle sinistre tradizionali, non si rispecchiava più nei partiti esistenti ed era alla ricerca di un nuovo riferimento politico. L’HDP rappresenta il tentativo di fornire a costoro un’alternativa, ma ciò non significa che sia un tentativo riuscito.
L’HDP è una coalizione, per ora premiata dalle urne, che tenta di conciliare a far confluire anime diverse, che appartengono a parti sociali distanti tra loro e, non di rado, in conflitto. Da un lato il movimento curdo – inclusi coloro che sono interessati alla rivendicazione etnica ma che, religiosi e in precedenza base elettorale dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), restano distanti dalle istanze più progressiste del partito, difficili da coinvolgere su iniziative quali, ad esempio, i diritti LGBT – dall’altro una sinistra moderna e liberale che, pur condividendo le idee di Gezi confluite nel manifesto elettorale dell’HDP, diffida del nuovo partito perché lo considera ancora troppo legato alla questione curda e alle sue organizzazioni politiche, in particolare al PKK. Una diffidenza che probabilmente peserà in futuro sulle sorti del nuovo schieramento.
Si può comunque affermare che l’HDP rappresenta una novità di non poco conto nel panorama politico turco, e che Gezi Park ha creato e plasmato l’HDP nelle idee, attraverso una leadership carismatica capace di far accettare al proprio diversificato pubblico una convivenza tutt’altro che semplice, con lo scopo di arrivare al successo elettorale.
Successo elettorale che non si spiega però con le idee di Gezi, ma con ragioni di calcolo politico, in particolare con il trasversale astio che Erdoğan è riuscito a maturare nella popolazione come nei suoi oppositori politici. Non soltanto l’HDP, tutti i partiti di opposizione (e probabilmente anche qualche membro nell’AKP) erano interessati a che quest’ultimo superasse la soglia di sbarramento d’accesso al parlamento, quel contestato 10% frutto delle leggi emanate subito dopo il colpo di stato del 1980.
Perché questo era l’unico, efficace modo di impedire all’AKP di raggiungere una maggioranza tale da renderlo in grado di implementare unilateralmente la riforma presidenziale promossa da Erdoğan. È su questo tema che si sono giocate le elezioni dello scorso 7 giugno, tema che ha dominato e posto in secondo piano tutti gli altri, inclusi quelli legati a Gezi, ad eccezione forse dei timori legati all’economia.
Un voto per l’HDP è stato per alcuni un voto a sostegno della causa curda, per altri a favore delle richieste legate a Gezi Park, ma per tutti è stato un voto contro Erdoğan, il suo sprezzante autoritarismo, la sua spregiudicata amministrazione della vita democratica, il suo progetto presidenzialista, la sua irritante e stagnante gestione del processo di pace turco-curdo ridotto a strumento politico, ed infine contro lo spettro di un’economia che rallenta e che l’AKP non sembra più in grado di mantenere viva come nel suo primo decennio di governo.
Sono queste le ragioni che hanno determinato la perdita di consenso dell’AKP di Erdoğan, di cui l’HDP è stato principale ma non unico beneficiario; basta ricordare il successo dei nazionalisti dell’MHP. E sono in molti a credere che una tornata elettorale priva del dilemma presidenziale, o addirittura senza l’ingombrante figura di Erdoğan, offrirebbe risultati molto diversi.
Sicuramente tra gli elettori dell’HDP ci sono anche coloro che hanno sposato le idee di Gezi, verso cui il partito è senz’altro in debito spirituale. Tuttavia, non è possibile rinchiudere quello spirito di cambiamento e rivendicazione entro gli angusti confini di un solo partito. Gezi Park è stato un movimento (e vale la pena ricordarlo, un movimento di minoranza) di cui tutta la Turchia moderna e progressista ha beneficiato, un movimento lontano dal palazzo, trasversale ai partiti, e proprio per questo politico nel senso più nobile del termine.