di Sara Manisera, da Beirut
Non so quanti sarebbero in grado di raccontarlo in quel modo. Ride e scherza Abir mentre parla della propria casa distrutta da un missile, e dei mesi successivi passati sotto terra, in mezzo alle pozzanghere, per proteggersi dai barili-bomba sganciati dall’esercito regolare di Bashar al-Assad.
“Hanno iniziato a bombardare perché nel nostro quartiere – Bab al-Hamar – c’erano i ribelli e molti sostenitori del Free Syrian Army. Prima hanno solo circondato il quartiere e poi hanno distrutto tutto. Abbiamo passato sette mesi sotto terra, in un fossato profondo quattro metri e poi siamo venuti qui”.
Abir, padre di due figli, è originario, di Homs, città siriana a nord est di Damasco e da tre anni vive nel campo profughi di Tel Aabbas, a nord del Libano, distante solo 4 chilometri dalla Siria.
“Siamo arrivati in Libano con un’auto, pagando 200 dollari a testa, per tratta, a volte anche 400 dollari. Da Homs a qui sono circa 80 chilometri ma abbiamo allungato, fermandoci in diverse case, anche per alcune settimane, per evitare i controlli”.
Secondo le stime dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, l’Unhcr, dall’inizio della guerra in Siria, nel marzo del 2011, i profughi siriani giunti in Libano sono quasi 1 milione e mezzo. Nel campo di Tel Aabbas, affittato da un libanese della zona, ci sono circa 350 famiglie che vivono all’interno di tende fatte di plastica e cartone.
“Prima avevamo una casa a due piani, ora viviamo in questa bella tenda – racconta con un sorriso amaro – e tutto ciò che abbiamo è solo questa valigia. Mia moglie è riuscita a portare i vestiti dei bambini ma non abbiamo neanche una foto. Le abbiamo buttate per paura che l’esercito potesse vedere i maschi della famiglia”.
Abir non è l’unico che ha cercato di proteggere gli uomini della famiglia. Anche Houssein per evitare che il figlio diciottenne Mohammed fosse arruolato dall’esercito regolare, ha dovuto pagare di più: “Siamo venuti ad Halba con un autobus pagando 250 dollari a testa ma mio figlio ha dovuto pagare 700 dollari perché stava scappando dalla leva e quindi era più rischioso trasportarlo”.
Houssein parla un italiano quasi perfetto. Ha vissuto dal 1982 al 2006 a Parma, lavorando come muratore prima, e poi aprendo una piccola società edile insieme a un italiano e un altro siriano. “Avevo diciannove anni quando ho lasciato la Siria; sono stato prima a Milano poi a Genova e infine a Parma. Sono stato molto bene in Italia perché ho trovato sempre persone che mi hanno fatto sentire a casa e grazie ai risparmi sono riuscito a comprare due appartamenti ad Homs. Poi ho deciso di tornare in Siria per raggiungere mia moglie e i miei figli. E adesso siamo qui”.
Le case non ce le ha più Houssein. Mi mostra un video in cui si vede una delle case completamente distrutta. Lui tuttavia è più fortunato degli altri perché in Libano vive in un appartamento e non in una tenda.
Come mi racconta Marta M. volontaria di Operazione Colomba, non tutti i rifugiati siriani possono permettersi una casa: “Chi ha qualche risparmio in genere parte verso l’Europa, pagando qualche organizzazione criminale per i documenti e per l’organizzazione del viaggio. Chi sta bene può permettersi un appartamento o un garage, poi c’è chi vive in una tenda. E noi viviamo come loro”.
Operazione Colomba, il corpo di pace della Comunità Giovanni XXIII, è l’unico gruppo internazionale che vive all’interno di un campo profughi. Sono presenti in diverse zone di conflitto, in Colombia, Palestina, Albania e dal 2013 anche in Libano, vivendo accanto ai rifugiati siriani.
All’inizio nessuno dei rifugiati credeva che fossero volontari. Non potevano credere che ci fossero persone disposte a vivere come loro all’interno di un campo profughi. Poi con il tempo si è instaurato un rapporto di fiducia e di amicizia.
“Questa la chiami vita? – esclama Filal, un altro profugo siriano che vive nel campo di Tel Aabbas da due anni e mezzo, anche lui di Homs – non so nemmeno come fanno loro a vivere come noi. Nessun essere umano sceglierebbe di farlo”.
Filal vuole solo tornare in Siria nella sua casa ma è consapevole che questo non avverrà. Nella sua testa c’è solo la voglia di andare via dal campo e provare ad arrivare in Europa per dare un futuro ai suoi figli.
“Per noi va bene andare da qualsiasi parte, non importa dove ma vogliamo lasciare il Libano e questa tenda”.