Annuncia il suo ritiro uno dei più grandi atleti di sempre, simbolo dell’Etiopia e dei suoi podisti
di Christian Elia
Ogni mattina un etiope si sveglia e sa che deve correre. Verso la fine di quella giornata, per ricominciare di nuovo il giorno dopo a vivere (o sopravvivere) in un regime soffocante. O per scappare lontano dall’Etiopia, per affrontare una viaggio lungo, costoso, doloroso. E spesso mortale. O per allenarsi, per correre più in fretta della fame e della paura.
In Etiopia, insomma, si corre sempre. Alcuni riescono a farlo per guadagnarsi da vivere, più fortunati di altri, più dotati di un talento che pare connesso alla natura stessa di questo popolo degli altipiani. Tutti conoscono la scuola kenyana del mezzofondo, ma l’Etiopia non è da meno, pur con molte meno strutture e con un decimo del budget che i grandi sponsor investono in Kenya, producendo talenti in serie.
La
Gebre, però, è nato in Etiopia. E quando dici Gebre, racconti una leggenda. Annunciata da un sorriso abbagliante, arriva una faccia simpatica, di uno che avrà dimostrato più anni di quanti ne abbia pure il girono che è venuto al mondo. Sempre che riesci a guardargliela la faccia, perché Gebre è nato per correre. E stargli dietro è dura.
Haile Gebresalassie, detto Gebre, nato nel 1973 ad Aselle, 200 chilometri dalla capitale Addis Abeba, a 2000 metri sopra il livello del mare. Un posto caro a Dio, dove per alcuni riposa l’Arca dell’Alleanza, simbolo di pace tra il divino e l’umano.
Dall’altipiano Gebre è partito correndo, per arrivare in cima al mondo: titoli olimpici sui 10mila, quattro titoli mondiali consecutivi, sempre nella distanza che è stata la sua specialità, i 25 dannati giri della pista, che non hai manco la consolazione dei panorami dei maratoneti.
E poi quattro titoli mondiali indoor, quindici record del mondo, la prima discesa storica sotto le 2h04’ sui 20mila, quando la strada ha preso il posto dell’anello rosso. E poi i 30mila e così via. Come a voler allungare per sempre quel pezzo di vita che Gebre ha passato a correre. Come per non fermarsi mai.
Ha tenuto a sottolinearlo: “Smetto di competere, non di correre”. Un ritiro dalla carriera agonistica che può arrivare o meno, ormai, tanto Gebre è nel mito.
Il piccolo etiope, contro i giganti del Kenya, è un’icona di libertà, di resistenza, di fiducia. Gebre corre, come il suo popolo in fuga da una vita dura. Al punto che annegare nel Mediterraneo, o finire in una prigione israeliana nel deserto o in un lager in Libia, è meglio che restare a casa.
Gebre è stato per il suo popolo un sorriso. E’ stato per tutti un simbolo, l’ennesimo Davide che si fa rincorrere da mille Golia. Icona di uno sport che ormai sembra appassionare solo i poveri del mondo, pronti a sacrifici inumani per ottenere dallo sport quel che nega la vita. Non fermarti Gebre, non fermarti Etiopia, che la strada è ancora lunga.