che sancirono l’ultima fase della decolonizzazione dell’Africa
di Marcello Sacco
Il 25 giugno di quarant’anni fa, dopo una lunga guerra, il Mozambico proclamava la sua indipendenza. Era la prima colonia portoghese a farlo, a poco più di un anno dalla Rivoluzione dei garofani. Nel giro di pochi mesi, in quell’estate del 1975, mentre in Portogallo si nazionalizzavano le banche e i contadini occupavano le terre esigendo la riforma agraria, seguirono l’esempio del Mozambico tutti gli altri territori africani lusofoni. A chiudere l’effetto domino, l’11 novembre dello stesso anno, sarà l’Angola.
I nostalgici del vecchio ordine mondiale hanno voglia a dissimulare la loro nostalgia con argomenti più o meno bizantini, quel sistema di potere andava certamente abbattuto e quella dell’Africa lusofona rappresentò praticamente l’ultima fase di decolonizzazione del nostro continente più martoriato.
Eppure ciò che venne dopo, a causa dei dissidi interni, aggravati dal bipolarismo mondiale, fu tutt’altro che il paradiso.
Sotto diverse bandiere ideologiche e confuse identità etniche che non hanno mai coinciso con i confini nazionali squadrati dai colonizzatori, dopo la ritirata dei portoghesi, si è andato consumando un feroce assalto al potere e alle risorse di porzioni di terra fra le più ricche del pianeta. Anche oggi, a guardare quelle storie retrospettivamente, magari con un occhio al disastro di alcune primavere arabe e della “liberazione” della Libia, non c’è da stare molto tranquilli.
In Mozambico la guerra civile fra il vittorioso Frelimo e gli scissionisti della Renamo scoppiò subito dopo l’indipendenza e sarebbe finita solo con gli accordi di pace firmati a Roma nel ‘92, con la mediazione della comunità di sant’Egidio. La pace ha poi spinto il Paese verso livelli di crescita che in Europa sono ormai a metà fra la protostoria e la fantascienza, ma da quelle parti la suddivisione della ricchezza resta molto squilibrata, quando non iniqua.
Come spesso avviene in Africa, poi, nuova ricchezza rischia di portare nuove scosse telluriche.
Si veda per esempio come, a fronte delle favolose scoperte di nuovi giacimenti di gas in acque profonde (stime recenti della Banca mondiale parlano di 20 miliardi di barili), alla vigilia delle elezioni del 2014 Frelimo e Renamo avessero drammaticamente riaperto le ostilità. E non parliamo di accesa dialettica parlamentare, ovviamente, ma di colpi d’arma da fuoco.
Fuoco che in questi anni non è certo mancato in Guinea Bissau, terra natale di uno dei simboli dell’africanismo degli anni ’60 e ’70, Amílcar Cabral (assassinato nel ’73). La Guinea compare oggi su più di una lista nera, essendo snodo di svariati traffici mondiali, dalla droga (i cartelli sudamericani la raggiungono facilmente sia in aereo che addirittura con potenti motoscafi capaci di attraversare l’Atlantico e infrattarsi nell’intonso arcipelago delle isole Bijagos) ai passaporti (in Italia abbiamo avuto consoli indagati che si contendevano la carica anche dopo essere stati dimessi, mentre perfino Marcello Dell’Utri provò a fuggire con un documento guineano in tasca, anche se molti giornalisti nostrani, nel dare la notizia, confusero la Guinea lusoafricana con la Papuasia).
José Mário Vaz è presidente da un anno esatto, da quando ha vinto un duello elettorale vigilatissimo dall’Onu, dopo che il processo elettorale del 2012 era stato interrotto da un golpe fra primo e secondo turno.
Il più longevo leader africano, dopo la scomparsa di Gheddafi, è invece saldamente seduto sulla poltrona presidenziale angolana. José Eduardo dos Santos sostituì nel ’79 un altro simbolo della lotta al colonialismo, Agostinho Neto, prima poeta rivoluzionario, poi presidente polemico, implacabile con gli oppositori e imprevedibile terzomondista non allineato, deceduto sotto i ferri in un ospedale sovietico (non mancano le teorie del complotto).
José Eduardo dos Santos ne prese il posto, in barba a leader ben più carismatici della guerra d’indipendenza, grazie appunto al suo profilo assai discreto in tempi così conturbati. Oggi continua ad ostentare quel taglio basso, sebbene non riesca sempre ad evitare le chiacchiere sugli sperperi dei familiari e sulla disinvoltura imprenditoriale della figlia Isabel, la donna più ricca d’Africa secondo Forbes. A suo vantaggio ha l’aver saputo introdurre l’Angola nello scacchiere diplomatico internazionale (in particolare con il riconoscimento degli USA, nel ‘93). E poi ha smorzato una lunghissima guerra civile eliminando fisicamente il rivale Jonas Savimbi, nel 2002.
Ma l’economia, fino a poco tempo fa ruggente, soffre ora una battuta d’arresto a causa della caduta del prezzo del petrolio, e quanto alla ridistribuzione della ricchezza, basti la recente denuncia dell’Unicef: 1/6 dei bambini muore prima di aver compiuto 5 anni.
Il problema è che chi oggi contesta dal basso viene accusato di voler far ripiombare il Paese nel conflitto, con conseguenti, smisurate misure di prevenzione.
È proprio di questi giorni l’arresto di una dozzina di giovani, fra cui Luaty Beirão, un rapper piuttosto noto (anche alle forze di polizia), un professore universitario e un giornalista , tutti vagamente accusati di turbare l’ordine pubblico. Normalmente questi arresti sono autentici rapimenti che durano ore, magari qualche giorno, senza che dei detenuti si sappia nulla fino al rilascio. La notizia ha oltrepassato i confini angolani grazie, come al solito, a internet, ma anche ai giornali portoghesi, che seguono sempre da vicino certe vicende.
Eppure qualcuno già si domanda che cosa succederà se Isabel dos Santos procederà nella sua campagna acquisti di intere quote del panorama mediatico lusitano, fra carta stampata, Tv e sale cinematografiche. È che, in questa ex potenza coloniale, nel Portogallo rapidamente svenduto in tre anni di austerità e Troika ormai si importa anche il conflitto d’interessi… altrui.
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