Sousse: ancora dolore per la Tunisia

A tre mesi dall’attentato al museo del Bardo,
il Paese arabo si risveglia di nuovo all’indomani di un attacco terroristico: «Si può rialzare la testa un’altra volta?»

di Clara Capelli

Otto. Diciannove. Ventisette. Trentasette. Ogni volta che controllo il numero delle vittime aumenta. Due uomini armati hanno aperto il fuoco sulla spiaggia di un resort a Port El Kantaoui, Sousse, 150 chilometri a sud di Tunisi. E la Francia, il Kuwait, la Somalia. Una giornata orribile, un dolore che sconvolge e che osservi con sgomento come in un acquario: la tragedia tunisina è sotto i tuoi occhi, ma tu sei a distanza di sicurezza nonostante la pioggia di messaggi allarmati che ti distrae ripetutamente.

Mi è stato chiesto di scrivere. Ma cosa posso dire di fronte a tutta questa violenza e questa morte?

Che parole possono dare forma a questo lutto? La Tunisia ha già ricevuto un duro colpo con l’attacco al Bardo il 18 marzo. Tanti tunisini sono preoccupati che la violenza si intensifichi sempre di più: la sicurezza è un tema largamente dibattuto al momento. E poi c’è il turismo, attività cruciale per il Paese e, soprattutto per la costa di Sousse: il Bardo aveva già fatto crollare le prenotazioni, ora chi vorrà più venire in Tunisia?

Penso ad Amin, un anziano venditore di fouta (gli asciugamani da hammam), della medina di Tunisi, che mi chiama sempre ya binti al-lubnaniyya, «la mia figliola libanese», perché abbiamo vissuto nello stesso quartiere a Beirut. Oppure a Marwa, un’architetta disoccupata che solo il mese scorso mi parlava del suo progetto di aprire un negozio di prodotti di artigianato da lei disegnati. Poi c’è Walid, un taxista che non perde mai occasione per dirmi quanto poco lavoro ci sia ora all’aeroporto perché di turisti ne vengono pochi.

Si può rialzare la testa un’altra volta?

Anche queste persone sono vittime delle violenza, perché dal turismo dipendono i loro progetti, le loro entrate, il loro potere d’acquisto già sofferente.

Mi è stato chiesto di scrivere. Ma a chi mi sto rivolgendo? A chi ha una quotidianità ed esperienze simili alle mie? Quindi ora dovrei parlare delle difficoltà politiche della transizione tunisina dopo il 2011; della disoccupazione dilagante che nessuna cifra ufficiale riesce a catturare; dei foreign fighters in Siria e Iraq e di quelli che sono tornati; dei risentimenti postcoloniali; della legge antiterrorismo e di quella contro le aggressioni alle forze armate, le quali sacrificano non poche libertà sull’altare della sicurezza, una preoccupazione tanto legittima quanto accecante. Sì, potremmo parlare di tutte queste questioni, forti delle nostre conoscenze e della nostra storia personale a discutere di violenza, terrorismo, sofferenze politiche, economiche, sociali, umane.

Posso invece rivolgermi a chi non sa nulla di ciò che sta dall’altra parte del Mediterraneo?

A chi pensa che abiti in una tenda, vada in giro infagottata in un velo per non essere sfregiata con l’acido e rischi ogni giorno la vita.

Solo due settimane fa la mia amica Giulia era venuta a trovarmi e avevamo tanto parlato della Tunisia “nascosta”, nel senso di nascosta agli occhi di non ne sa nulla. Mi è stato chiesto di scrivere e avrei dovuto farlo subito dopo il Bardo. Avrei dovuto raccontarvi di tutte le associazioni e iniziative culturali e sociali a Tunisi, cui non riesco a stare dietro; oppure avrei potuto parlare di quanto desolati siano il presente e il futuro di zone dell’interno come Kassrine, Sidi Bou Zid, Jendouba; oppure ancora degli scioperi degli insegnanti o delle proteste dei lavoratori di Gafsa.

Avrei dovuto raccontarvi la storia del porto della Goulette, delle comunità ebree, italiane e maltesi che ci vivevano e spesso ancora ci vivono, come le vecchiette siciliane che ogni tanto visito, le quali – in un misto di francese, dialetto siciliano e dialetto tunisino – mi rimproverano immancabilmente perché prendo il taxi da sola e non sta bene per una ragazza non sposata.

Avrei potuto provare a descrivere si vive durante il mese di Ramadan, tra panini mangiati di nascosto perché ti senti sempre a disagio e le rotture del digiuno sulla spiaggia. Forse addirittura avrei dovuto scrivere dei bar e delle discoteche, dei teatri e dei cinema, dei miei amici che si lamentano del loro lavoro oppure lo cercano, magari altrove, in Europa, ma le condizioni per ottenere un visto sono spietate tanto sono restrittive ed esigenti.

Non ho scritto niente perché temevo di rispondere al diffuso stereotipo della “brutale arretratezza” del mondo in cui vivo con altri stereotipi, tutto nell’ansia di normalizzare, contestualizzare, rendere la complessità di un Paese che affronta tante difficoltà e che rivendica la sua dignità agli occhi di chi lo guarda.

Se avessi scritto di tutto questo mi avreste prestato attenzione?

In una prospettiva che liquida tutto a buoni e cattivi c’è spazio per un po’ di curiosità e riflessione o invece una ruspa mentale ha fatto piazza pulita per lasciare spazio alla paura di una guerra contro invisibili mostri sanguinari e che altro non fa che autoalimentarsi?

Questo è un articolo che non avrei mai voluto scrivere, esattamente come quello che feci per l’attacco al Bardo. E come tre mesi fa mi sento solo di dire: guardiamo con altri occhi e guardiamo anche altro. Per noi stessi, per la Tunisia e per questa martoriata regione schiacciata dalla violenza delle armi e dei nostri impietosi giudizi.

 

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