Di orizzonti e limiti

Dal festival LetterAltura 2015, di cui Q Code Mag è media partner, un’intervista a Isabel Suppé, personaggio poliedrico e chisciottesco, appassionato di montagne, viaggi e scrittura

di Chiara Catenazzi

Scrittrice nomade, viaggiatrice poliglotta, appassionata montañista. Alpinista, la traduzione italiana di questa parola spagnola, è davvero troppo eurocentrica per descrivere Isabel Suppé. Nata in Germania ha iniziato da piccola a camminare in montagna con il nonno, ben presto i suoi percorsi sempre più verticali l’hanno portata in America: prima negli Stati Uniti, dove ha studiato, poi più a sud a Buenos Aires. In Argentina ha continuato i suoi studi di letteratura ispanoamericana, e qui grazie ai soldi risparmiati per un frigorifero, spesi in un viaggio, ha scoperto le Ande. Queste sono le sue montagne: isolate, remote, sconosciute anche ai professionisti della montagna esperti delle  vette europee o himalayane.

In questi luoghi, dove non esiste l’elisoccorso, l’affascinante rischio della risalita dell’Ala Izquierda del Condoriri si è rivelato nel suo aspetto più drammatico.

Quasi raggiunta la vetta, Isabel e Peter Wiesenekker, compagno di scalata conosciuto pochi giorni prima, sono precipitati per 400 metri dalla parete di ghiaccio che stavano scalando. Di questa esperienza racconta il suo primo libro Una notte troppo bella per morire, scritto anche per sopravvivere alle stanze di ospedale e alle diverse operazioni subite dopo l’incidente.

Isabel non si è lasciata vincere né dal dolore fisico, né dalle prognosi amare dei medici: non avrebbe più potuto scalare, forse neanche camminare. È tornata ad arrampicare già con la gamba ingessata, a scalare con le stampelle, anche a viaggiare pedalando. In Viaggi con Ronzinante racconta del suo coast to coast negli Stati Uniti, un’avventura senza soldi in sella alla sua bicicletta chisciottesca.

Isabel Suppé a LetterAltura 2015 -  fotografia di Lorenzo Camocardi

Isabel Suppé a LetterAltura 2015 –
fotografia di Lorenzo Camocardi

L’abbiamo intervistata a seguito del suo intervento di venerdì 26 giugno al festival LetterAltura 2015. In questa occasione ha dialogato con Enrico Martinet.

Isabel, ti definiscono montañista, viaggiatrice, scrittrice, ma che cosa invece diresti tu per descriverti?
Si è vero, sono tutto questo nomade, scalatrice, viaggiatrice, ma quando scrivo mi piace definirmi scrittrice, anche se il mio cuore resta nelle montagne.

Ad ogni modo hai viaggiato molto nella tua vita. È l’amore per il viaggio che ti ha portata in montagna, o è più l’amore per la montagna che ti ha spinta a viaggiare?
Prima per me è venuta la montagna, mi ci hanno portata quando neanche camminavo. E’ però anche vero che per poter arrampicare ho viaggiato tantissimo. Le due cose mi piacciono, mi piacciono anche i viaggi culturali, sono un’amante dell’arte, per questo motivo non mi limito a scalare.

Visto che sicuramente ti piace  l’avventura in diverse forme, come ti prepari ad affrontare una sfida, a vivere un rischio, che sia un trasferimento dall’altra parte del mondo, un lungo viaggio o una scalata impegnativa?
È lei, è l’avventura che mi perseguita! Il mio modo di affrontare una sfida dipende molto dalla situazione. Quando il rischio è in montagna cerco di avvicinarmi con una certa preparazione, con un allenamento fisico e tecnico. Iniziata la scalata importante è anche la concettualizzazione della situazione che mi si pone davanti, passo dopo passo serve concentrazione. Quando vivo una sfida la affronto anche con il cuore, ascoltando l’intuizione.

Nelle tue avventure hai incontrato anche il dolore. Come lo hai vissuto? Com’è cambiato il tuo modo di andare in montagna dopo l’incidente sul Condoriri?
Quando ti accade qualcosa del genere diventi più cosciente della fragilità dell’essere umano, ma ti fa anche apprezzare di più la vita e ogni istante di questa. Con questo pensiero sono tornata in montagna. Adesso quando affronto la possibilità di una caduta ho più paura. Prima dell’incidente la paura era paura di poter morire, ora invece ho paura di farmi male e dover tornare in ospedale. Sembra comico ma è vero.

Il ritorno è il tema del festival di Letteraltura di quest’anno. Ritornare attraverso il ricordo, scrivendo di un trauma, è difficile o piuttosto liberatorio?
È liberatorio. In realtà io ho cominciato a scrivere quando ero molto giovane, avevo più o meno dieci anni. La scrittura è stata da sempre per me uno strumento per digerire ciò che accade, anche le vicende dolorose. E’ anche una certa forma di meditazione ed un modo per vivere più di una sola vita, perché si possono immaginare delle cose e si può plasmare la realtà. Dopo l’incidente la scrittura è stata un modo per convivere con tutto ciò che era successo.

Nel tuo libro Noche estrellada ( in italiano, Una notte troppo bella per morire) sei tornata sull’Ala Izquierda con il ricordo. Ci sei mai tornata fisicamente?
Sono tornata in montagna, ma su quella montagna no. Non c’è bisogno. L’Ala Izquierda mi ha perdonata una volta, una seconda volta non so se lo farebbe. Penso che se ci tornassi e mi succedesse un altro incidente il mondo intero riderebbe di me, tornare e morire su quella parete dopo quello che mi è successo sarebbe una morte ridicola e patetica.

Passando ad un altro tema, come hai deciso di scrivere in spagnolo, anche se non è la tua lingua madre?
In realtà non è stata proprio una decisione, piuttosto è stata una scelta emozionale. La scrittura è un flusso, un flusso di ispirazione che mi è arrivato in spagnolo.

Cos’hai studiato all’Università di Buenos Aires? Ti piace la letteratura spagnola e ispanoamericana? C’è un autore che ti affascina particolarmente?
Dopo un periodo negli Stati Uniti, dove ho studiato grazie a una borsa di studio che ho vinto, mi sono trasferita per specializzarmi a Buenos Aires. In Argentina mi sono dedicata alla letteratura ispanoamericana. Ci sono tanti autori che amo, non ne ho uno preferito in particolare, ma ultimamente mi sono appassionata all’opera di Juan José Saer. Non è troppo conosciuto, ma è uno dei grandi autori argentini del ventesimo secolo, per qualche ragione qui non si studia molto.

Isabel Suppé dialoga con Enrico Martinet a LetterAltura 2015 -  fotografia di Lorenzo Camocardi

Isabel Suppé dialoga con Enrico Martinet a LetterAltura 2015 –
fotografia di Lorenzo Camocardi

Parlando del tuo ultimo libro, Viajes con Rocinante (in italiano Viaggi con Ronzinante), come hai deciso di dare questo nome alla tua bicicletta? Anche tu come Don Chisciotte ci hai messo quattro giorni per dare un nome al tuo cavallo?
Il mio piede dopo dieci interventi era migliorato, ma poi ha avuto un peggioramento, fino al punto che non riuscivo più a camminare. Mi è stata consigliata una serie di tre interventi chirurgici in Spagna, poi il medico ha detto che avrei dovuto andare un po’ in bicicletta, ma non ha detto quanto. Così ho preso in prestito la bici di mia nonna e sono andata dalla Germania alla Spagna e l’ho battezzata Rocinante. La lotta mia e del mio piede per riconquistare la capacità di camminare, camminare senza dolore, mi sembrava un’impresa quijotesca, chisciottesca perché era quasi impossibile. E’ da quel momento che Rocinante è diventato soprattutto un concetto, non ho una sola bici che si chiama così: la prima è stata quella di mia nonna, poi quella che ho usato per attraversare gli Stati Uniti, ma anche la mia handbike con la quale sono venuta a Torino da Monaco per firmare il contratto con l’ editore italiano si chiama Rocinhante, con una “h”nel mezzo, perché si pedala con le mani.

Ti piace l’idea di  crociata contro l’impossibile?  
Il viaggio negli Stati Uniti è stato proprio una crociata contro l’impossibile! Ci sono stata tre mesi, ma prima di partire ho scalato in stampelle il Mount Rainier, anzi proprio le stampelle mi hanno salvato la vita perché sono caduta in un crepaccio, ma una stampella si è incastrata nel ghiaccio e ci sono rimasta appesa, come in un film comico. Però sono riuscita ad uscire illesa dal crepaccio. La morale della storia è che non si deve mai andare in montagna senza stampelle!

Qual è invece il significato del sottotitolo entre liviandad y pesadumbre (tra lievità e pesantezza)?
Questo titolo deriva da quello che è stato il viaggio negli Stati Uniti. In un primo momento ho provato una grande gioia per il poter camminare senza dolore, per poter saltare e tutto il resto. In un secondo momento il viaggio si è legato alle storie che ho ascoltato mentre attraversavo quel paese, alle persone che ho conosciuto. Spesso sono state storie di liviandad e allegria, ma anche storie molto pesanti e tristi. Così è stato un viaggio tra lievità e pesantezza, come la vita stessa.

Il viaggio per te ha una dimensione terapeutica?
Un po’ si, è cominciato con il dolore ma poi è diventato altro, una vera esplorazione, protagonista ne è stata la strada con i suoi personaggi. Io e il mio piede siamo passati in secondo piano.

C’è una prossima impresa alla quale stai pensando?
La settimana prossima parto per il Perù per presentare il mio libro ma anche per arrampicare, poi Messico, Stati Uniti. Ad ottobre sarò a Palermo, possibilmente anche a Genova.