Un progetto di scrittura partecipata lanciato dai Wu Ming, un racconto che segue una rotta condivisa per farsi racconto indipendente
di Chiara Bonfiglioli, tratto dal progetto di scrittura collettiva Tifiamo Scaramouche
foto per gentile concessione Dornoch Historyline Center
1.
…E coloro sotto accusa conducevano risaputamente una vita diabolica e avevano mala reputazione; Dio, infatti, è geloso della reputazione di coloro che sono innocenti. In aggiunta, altri due elementi possono essere d’aiuto nel processo: il primo è trovare il segno del diavolo sulla pelle e provarne l’insensibilità. Il secondo è la prova del galleggiamento […]. Chè Dio ha fatto in modo, come segno sovrannaturale dell’empietà mostruosa delle streghe, che l’acqua rifiuti di accoglierle nel suo grembo, dal momento che hanno rifiutato il beneficio delle acque del battesimo. Allo stesso modo, i loro occhi non sono capaci di versare lacrime – minacciale e torturale quanto credi – fino a quando non si pentono veramente – non permettendo Dio di dissimulare la loro ostinazione in un crimine tanto orribile –, e ciò nonostante la razza femminile è capace di versare lacrime per ogni piccolezza, anche se con dissimulazione, come i coccodrilli.
Giacomo VI di Scozia, poi Giacomo I d’Inghilterra, Demonologia, Edimburgo, 1597
2.
Seduta sullo scranno di fianco al fuoco, Janet chiuse gli occhi. Immediatamente, ricordi di venticinque anni prima le affollarono la mente.
Lorna le gridava di sbrigarsi, e lei si affrettava lesta con il cesto di masserizie, gettando un’altra occhiata ai banchi del mercato, vicino a cui si stavano azzuffando frotte di gabbiani. Il centro di Glasgow la affascinava, con le sue nuove costruzioni, le strade maestose e diritte, brulicanti di mercanti, marinai, donne di malaffare, serve e predicatori. Solo a volte le mancava il verde delle Highlands, l’odore di torba e il silenzio delle brughiere. Ma era grata alla padrona per averla presa a servizio quando sua madre era morta, e non le era rimasto di che mangiare.
D’improvviso si ricordò di quando se ne stava accoccolata accanto al fuoco, vicino a Lorna. In cucina si discuteva del processo di Paisley, come del resto in tutta la città.
«Senti qua!» tuonò Cornach, il tuttofare di casa, l’unico a saper leggere. Recitava la gazzetta alla servitù:
La damigella Christian Shaw, di anni undici, figlia di John Shaw, barone di Bargarran, è chiara vittima di stregoneria e maleficio. La serva Katherine Campbell, nota per essere impulsiva e irascibile, è stata scoperta a rubare del latte. Quando la damigella l’ha colta sul fatto, la Campbell le ha lanciato una maledizione. Il giorno successivo, una vecchia vedova, ignorante e maliziosa, Agnes Naesmith, si è presentata a casa della piccola e ha chiesto della salute sua e dei suoi fratelli. A seguito di questi episodi, la damigella ha cominciato a soffrire di dolori tremendi, deliri e spasmi nervosi. Ha cominciato inoltre a sputare peli, paglia e carboni ardenti. I migliori medici di Glasgow l’hanno visitata ripetutamente, ma senza risultato. Nel corso dei suoi tormenti, la damigella ha indicato una serie di abitanti del villaggio di dubbia fama come suoi persecutori, insieme alla serva e alla vedova. Una commissione di notabili del villaggio si è riunita, e dopo varie delibere ha emesso la sentenza. Margaret Lang, John Lindsay, James Lindsay, John Reid, Catherine Campbell, Margaret Fulton, and Agnes Naismith saranno condannati a morte per stregoneria.
«Il diavolo, vi dico, è stato il diavolo, non c’è altra spiegazione!» chiosò la grassa cuoca, originaria del foborgo di Sauchiehall.
«Io non credo a una parola!» sbottò Lorna, scuotendo la sua chioma color carota. La ragazza era appena poco più grande di Janet, ma era cresciuta in città e sapeva il fatto suo. Di fronte agli sguardi perplessi dei presenti, aveva aggiunto: «Quanto è vero Iddio, queste storie di streghe sono una gran fandonia inventata dai bigotti e dai baroni, un modo per tenere chiusa la bocca ai poveracci. Vedrete che anche stavolta sarà qualche d’uno di noi a rimetterci».
Le parole di Lorna le risuonarono nelle orecchie, come se le avesse sentite quel giorno stesso e non venticinque anni prima. Dopo qualche minuto, si addormentò.
3.
«Edmund, my darling. Davvero non so che cosa ti spinga verso quei posti barbari e dimenticati da Dio. Vuoi dirmi che cosa ti manca qui, Edmund? Farai morire tua madre di crepacuore!».
«Cara madre, ve ne prego, non fate così. Lo sapete quanto è importante per me questo incarico. E poi ho sempre desiderato visitare il resto del Regno. Ora devo andare, madre, vi scriverò!».
Dopo essersi congedato, non senza sensi di colpa, il giovane ingegnere Edmund Burt si preparava ad intraprendere il viaggio verso Inverness, fiero della missione affidatagli: costruire la prima linea ferroviaria delle Highlands scozzesi.
Nella giubba, il fidato taccuino di viaggio, da cui non si separava mai. Il suo grande amico John Lewis, avvocato del foro, gli aveva chiesto resoconti dettagliati sulla vita dei montanari scozzesi, che per lui erano folkloristici quanto gli indiani, o gli ottentotti. Edmund, dal canto suo, era deciso a documentare le condizioni di vita degli abitanti il più accuratamente possibile, nonostante i pregiudizi anti-scozzesi che circolavano a Londra.
Armato di buone intenzioni, Edmund si diresse in calesse verso Edimburgo.
Lungo la via, nella prima taverna incontrata, gli venne offerto un pasto di piccioni ribolliti nel burro, ma le ditate dell’oste che affondavano nei piatti lo convinsero ad accontentarsi di un pezzo di pane. Anche ad Edimburgo gli standard igienici non erano gli stessi dell’Inghilterra.
«Guarda lì il cuoco» sussurrò un altro commensale inglese in una taverna «se lo spingi verso il muro potrebbe restarci appiccicato».
Di ritorno alla pensione, tra le viuzze, ad Edmund era stata assegnata una guida, che lanciasse un urlo per allertare del suo passaggio. Dopo le dieci, infatti, il contenuto dei vasi da notte del foborgo veniva liberamente gettato dalle finestre. L’esiguità e il puzzo della città vecchia, in cui si accatastavano famiglie intere su vari livelli di vicoli nauseabondi, erano in gran parte frutto dell’avidità dei proprietari e delle corporazioni, che evitavano di espandere la città verso il mare. Così scrisse Edmund nel diario. Di lì a poco, il viaggio lo spinse verso Inverness, via Glasgow, la cui cattedrale, annotò sul taccuino, era di poco scampata alla furia dei riformatori puritani. La vicina chiesa di Linlithgow invece non aveva avuto la stessa fortuna, ed era stata poi usata da Cromwell come stalla per i cavalli.
Appena arrivato a Inverness, nelle pause di lavoro, Edmund riprese a documentare la mancanza di igiene, la miseria delle abitazioni e altre stranezze locali, come la presenza di ratti in ogni via, o le foche nel porto. Ogni quindici giorni, come promesso, inviava le lettere a Londra.
Parlando con i villici, si rese presto conto di un altro fatto degno di nota, ovvero che in Scozia le superstizioni stregonesche non erano state soppiantate dal progresso e dalla scienza, come nel resto del Regno.
4.
L’inverno del 1722 era baltico, come si diceva da quelle parti, e la grandine aveva rovinato i raccolti, provocando la disperazione degli abitanti del villaggio. Ai margini di Dornoch, una fattoria dal tetto di paglia era scossa dalle raffiche di vento gelido che veniva da dietro le montagne.
«Com’ here, wee bairn… Roooooose! Come si chiama la gallina, non riesco a ricordare… e abbiamo dato le ghiande ai maiali?».
«Aye, mamma. La gallina si chiama Lorna, come la tua amica a Glasgow, ricordi. Ora vieni dentro, è troppo freddo».
«Lorna, aye… la signora baronessa era buona con me e Lorna. Ma non riesco a ricordare tutto quel che vorrei, Rose».
«Lo so, mamma, lo so. Aw’right, vieni».
Rose chinò la testa, pensierosa, accompagnando sua madre verso la porta.
Janet aveva cominciato a comportarsi in modo strano dall’estate precedente. Sempre più spesso dimenticava quel che aveva fatto un attimo prima, e a volte parlava in modo sconnesso di eventi del passato, soprattutto della vita a Glasgow quando stava a servizio. Non menzionava mai il padre di Rose, un mercante che l’aveva illusa con promesse di matrimonio e poi abbandonata al suo destino. Janet era tornata a Dornoch, incinta di una figlia illegittima. Rose era nata con sole tre piccole dita ai piedi e alle mani, e alcuni abitanti del villaggio avevano interpretato queste deformità come una punizione divina. La baronessa del Sutherland, però, aveva voluto aiutare Janet, dandole in gestione un piccolo appezzamento di terreno appena fuori dal villaggio.
Rose cominciò ad attizzare il fuoco con le sue mani deformi.
«Succedono cose strane, in questi giorni, Rose» disse Janet, ancora sull’uscio.
«Come, mamma?».
«La gente è nervosa per via dei raccolti. E i padroni stanno parlando di proibire l’accesso al bosco e alle terre comuni».
«È successo qualcosa che non mi hai detto?».
«L’altro giorno al mercato, mentre vendevo le uova, Morwenna O’ Callaghan e le altre mi hanno guardato in modo strano. Allora sono andata da loro, e queste hanno fatto finta di niente. Ma quando mi sono voltata, ho sentito Mor bisbigliare “va via e bolliti la testa!”».
«Non ci fare caso, dai. Quelle parlano a vanvera, c’hanno il culo fuori dalla finestra».
Rose cercava di non darlo a vedere, ma sapeva bene che da quando era morta la baronessa le cose non stavano più come prima. Si diceva in giro che lo sceriffo avesse messo gli occhi anche sulla loro terra, che confinava con la terra comune. Rose sapeva anche che le chiacchiere delle comari erano spesso avvisaglia di guai. Guardò la madre, ancora più pensierosa.
5.
Chino al suo scrittoio dopo una giornata di lavoro, Edmund Burt scriveva a John Lewis, come di consueto. Il vento e la grandine di marzo sferzavano le finestre nel buio della sera, ed Edmund assaporava il tepore del fuoco:
Aspetto con ansia la tua opinione sulle lettere mandate finora, sperando di non essere risultato prolisso. D’altra parte, sono certo che non potrete lamentarvi che queste mie lettere non siano di vostro gusto, dal momento che sto compiendo il mio dovere di amico nel soddisfare la vostra curiosità. Lasciate ora che vi racconti qualcosa sulle peculiarità del genere femminile in queste terre. Le donne del popolo, oltre a lavare panni nel fiume e pavimenti con i piedi, come accennato in precedenza, generalmente non portano scarpe, se non la domenica per la messa, quando le si vede camminare in modo sgraziato, come un gatto che calzasse gherigli di noce. Quando escono mettono un lenzuolo sulla testa, e questo stesso lenzuolo fa poi da coperta alla sera quando vanno a dormire, disteso sul pavimento. Come vedi, mio caro John, per raccontarti tutti i dettagli sono costretto ad abbassarmi al livello di una comare, ma procediamo. A coloro che deridono la sporcizia e la pigrizia di questi poveracci, vorrei fare capire che hanno salari troppo bassi per permettersi la pulizia. E perché mai dovrebbero emulare i padroni, che li trattano più come negri che nativi della Gran Bretagna? Non c’è niente di naturale in questa loro condizione.
Lasciandosi trasportare dall’indignazione, l’ingegnere Burt si fermò allora a pensare ai contadini incontrati nelle sue trasferte, costretti a dormire per terra a dieci alla volta nelle capanne delle Highlands. Ripensò ai bambini laceri, scalzi, pidocchiosi e alla miseria di quelle terre, di cui aveva sempre ignorato l’esistenza. Immediatamente, i suoi pensieri ritornarono a un’altro costume che lo aveva scosso, e riprese a scrivere:
Veniamo ora, amico mio, alle superstizioni locali. Mi piace pensare che la nozione di strega sia alquanto in disuso tra gli inglesi dotati di un certo buonsenso e di una certa educazione. Ma qui persiste, talvolta anche tra i magistrati. La stregoneria e l’incanto – come viene chiamato – sono comuni ricorrenze negli atti dell’assemblea generale. Mi è stato raccontato infatti che un paio di mesi fa, due povere donne delle Highlands – madre e figlia –, nella contea di Sutherland, sono state accusate di stregoneria, processate, e condannate al rogo. Questo procedimento è stato portato avanti dallo sceriffo David Ross. La più giovane è riuscita a scappare dalla prigione in cui le tenevano, ma la vecchia donna ha sofferto una morte crudele in un barile di pece rovente, a Dornoch, il borgo principale della contea.
Edmund Burt pensò per un attimo alla povera donna, e poi si decise a refutare l’esistenza della stregoneria con il consueto cartesianesimo che lo caratterizzava:
Si dice che queste donne nelle Highlands abbiano confessato. Ma come possiamo reputare credibili queste confessioni, quando coloro sotto accusa sono tenuti svegli e torturati senza sosta, pungolandoli dove si dice abbiano il segno del diavolo? C’è solo da augurarsi che la legge venga abolita, perché l’unico risultato è quello di sottomettere vite umane all’ignoranza del giudice o della giuria. Nessun onesto testimone potrebbe mai provare l’esistenza di una vecchia che cavalca una scopa, o che si trasforma in un gatto. Più seriamente, c’è ragione di concludere che questo supposto crimine di stregoneria è stato trasformato in uno strumento per abusi di potere, che non potevano essere legittimati dalla giustizia in altro modo.
Dopo avere concluso questa tirata, il pensiero andò a quegli sfortunati che erano stati giustiziati a North Berwick durante il regno di Giacomo I, con l’accusa di avere scatenato una tempesta che aveva bloccato la nave in cui viaggiava la sua promessa sposa, Anna di Danimarca. Quel demente di Giacomo I era convinto di essere Dio in terra in lotta con il Demonio. O almeno questo raccontava, per far tacere gli avversari. Pian piano le associazioni mentali si fecero più frivole, ed Edmund si ricordò dell’eccellente rappresentazione del Macbeth vista a Londra poco prima di partire. Si rese conto che gli mancava andare a teatro, insieme a molti altri piaceri mondani della capitale. A quel punto decise di continuare la lettera l’indomani, e di andarsene a letto.
6.
Rose sentì la porta della cantina che si apriva. Aedan sgattaiolò giù dalle scale, veloce come una saetta e le porse un tozzo di pane e un pezzo di formaggio. Era stata nascosta là sotto per quasi dieci giorni, piangendo, pensando alla povera madre, e a come farla pagare a quel bastardo dello sceriffo. Le comari avevano prima sparso la voce che la madre se la intendeva con il diavolo, usando lei, Rose, come un pony per le sue scorribande. Lo sceriffo era stato ben contento di accettare le sue deformità ai piedi e alle mani come una prova valida. Quel che gli importava era prendersi la terra. Rose aveva cercato in tutti i modi di convincere la madre a trarsi in salvo e a scappare dalla cella quando Aedan era riuscito a distrarre il vecchio guardiano. Ma non c’era stato niente da fare. Janet, seduta sulla panca, aveva continuato a fissare il muro, assente, e a parlare delle erbe che avrebbe raccolto con la bella stagione.
Non sembrava rendersi conto di niente; anche davanti al fuoco che scaldava la pece bollente avrebbe detto: «senti che bel caldino». E nell’osservare tutta quella gente riunita per vederla bruciare, si era persino rallegrata, come se si fosse trattato di una festa di paese.
Questo, almeno, le aveva raccontato Aedan, probabilmente per farla sentire meglio. Erano amici fin da bambini, i due illegittimi del villaggio.
«Moran taing» ringraziò Rose.
Aedan le annunciò che doveva andarsene al più presto, il cugino sarebbe partito alla volta di Edimbra l’indomani, ed era pronto a portarla con sé.
«Dinnae, forse è troppo presto» rispose dubbiosa.
«Nae danger, lassie» la rassicurò Aedan.
Si convinse allora che era tempo di partire e le venne in mente il detto popolare che sua madre amava ripetere: “Whit’s fur ye’ll no go past ye”, “quel che ti deve capitare, prima o poi ti capita”.
Nonostante le mancassero metà delle dita, e avesse solo sedici anni, Rose era sveglia e lavorava sodo. Appena arrivata nella capitale, aveva girato tutte le closes della città vecchia, e dopo due giorni una vecchia borghese caduta in disgrazia le aveva offerto un giaciglio in cantina in cambio delle pulizie. Aveva anche cominciato a lavorare ai banchi del mercato a Waverley, e all’inizio dell’estate si era finalmente potuta permettere un sottoscala tutto per sé nei pressi di Cockburn Street.
Nel frattempo, al mercato, aveva fatto amicizia con due giovani fratelli, ultimi di dieci, anche loro emigrati dalle Highlands dove facevano la fame. Alistar e Dalach erano a posto, good lads. Lavoravano come tuttofare in un teatrino di prosa e le insegnavano a leggere nei momenti liberi. L’Illuminismo scozzese era ai suoi inizi e la città pullulava di scuole, università, club di discussione e case editrici. Gli ultimi libri usciti si vendevano a centinaia, accaparrati da studenti che credevano ciecamente nella forza della ragione. Naturalmente le donne erano escluse per legge da questo moto di progresso, ma Rose non si lasciava intimidire.
A saperne di più ci avrebbe sicuramente guadagnato.
7.
Erano passati oramai due anni dal suo ritorno dalle Highlands, quando Edmund Burt si ritrovò nuovamente a Edimburgo per una consulenza. Le sue lettere sugli usi e costumi degli Scozzesi erano state date alle stampe sei mesi prima, ed erano state accolte con curiosità, soprattutto a Londra. Questa volta Burt alloggiava in una mansione su High Street, per sfuggire agli olezzi della città vecchia e all’usanza del lancio del secchio.
Arrivato sul far della sera, si mise a scorrere le gazzette locali, e lesse con stupore di un brigante mascherato che si aggirava per le vie della città. Secondo le vittime, il criminale indossava una mantello nero e una maschera da commedia dell’arte: la maschera di Scaramouche.
La modalità di azione sembrava ripetersi uguale, ma il movente restava oscuro. Una ricca imprenditrice cinquantenne, Christian Miller, che dirigeva l’industria del famoso filato del Bargarran, si era recata a Edimburgo per affari. Ritornando al suo albergo sul fare della sera, era stata tramortita e si era risvegliata in un vicolo, con un gomitolo di lana in bocca.
Sul muro vicino a lei era stata trovata una scritta:
whit’s fur ye’ll no go past ye
Una punizione simile era toccata allo sceriffo del Sutherland, che si trovava di passaggio a Edimburgo per un viaggio di piacere verso Londra. L’anziano sceriffo era stato tramortito, ed era poi stato pungolato in più punti.
Come succedeva alle streghe sotto tortura, pensò subito Burt.
Anche lo sceriffo si era risvegliato in un vicolo, vicino alla stessa scritta:
quel che ti deve capitare prima o poi ti capita
Entrambi, terrorizzati, erano tornati di volata nelle Highlands. Girava voce che il criminale mascherato si divertisse a spaventare notabili scozzesi che avevano le mani in pasta nelle clearances, le privatizzazioni delle terre che avevano lasciato in miseria e costretto all’emigrazione migliaia di contadini.
Ancora molto colpito da quel che aveva appena letto, e con la netta impressione che gli ricordasse qualcosa di familiare, Edmund Burt decise di sgranchirsi le gambe e di salire fino alla rocca del Castello, nonostante fosse già buio pesto. Mentre percorreva uno dei vicoli che sbucavano su Royal Mile, un’ombra mascherata gli si parò davanti appena svoltato l’angolo. Burt trasalì e quando vide che l’ombra aveva il volto coperto da un rostro, si sentì mancare.
E fu ancora più sorpreso nell’udire una voce femminile: «Molto piacere, lord Burt. Non si spaventi. Già ci conosciamo, per così dire. Ho letto il suo libro con molto interesse».
Una mano con sole tre dita alzò lentamente la maschera.
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