La kermesse milanese colleziona visite di leader mondiali più o meno imbarazzanti
di Lorenzo Bagnoli
Milano, Rho Fiera, 9 luglio 2015. Expo è scivolato fuori dai giornali. Il luna park si è normalizzato, dopo due mesi di vita. Rimbombano solo le assordanti polemiche sui biglietti venduti: 6 milioni? 9 milioni? 2,5 milioni?
Una polemica sterile, perché l’evento vetrina, ora, sta assumendo sempre di più un ruolo politico. Certo, il successo di pubblico servirà a far chiudere i conti in pareggio alla spa, ma oggi c’è molto altro che accade lungo il cardo e il decumano. Expo è il palcoscenico dei tempi supplementari di trattative, con personaggi più o meno specchiati, che forse è meglio tenere lontani dai palazzi della politica e della grande industria. Me che è necessario incontrare.
D’altronde la manifestazione vanta due ottime scuse: uno, la presunta universalità; due, l’altrettanto presunta volontà di rendere protagonisti tutti i Paesi. Va bene la Bielorussia del dittatore Alexandr Lukashenko, va bene l’Egitto del generale Al Sisi, la prigione che dal ’92 si chiama Eritrea, dominata da Isaias Afeworki, il Sudan di Omar al Bashir e lo Zimbabwe di Robert Mugabe, giusto per fare qualche nome. Un mese fa era toccato a Vladimir Putin.
Ognuno di loro avrà un giorno da protagonista, a Expo.
Il 9 luglio è toccato all’Azerbaijan festeggiare il giorno della nazione. Da quando è caduto il muro di Berlino, a Baku governa una sola famiglia: gli Aliyev. Padre della patria è Heydar: un uomo di cui non si sa pressoché nulla. Secondo le biografie “ufficiali” sarebbe nato in una famiglia di proletari della Repubblica socialista autonoma di Nakhchivan. Avrebbe fatto carriera nel partito, diventando con Breznev il primo membro del politburo musulmano. Tornato in patria, nel 1993 ha avuto il campo libero: eletto a furor di popolo. Fino al 2003, quando ha abdicato per lasciare il potere al figlio Ilham. Il compagno Heydar, a cui in Azerbaijan è intitolato tutto, muore a Cleveland, Stati Uniti, lo stesso anno in cui lascia il potere.
Baku galleggia su gas e greggio. Come il vicino Kazakhstan, è un pese dove le materie prime abbondano. Ma questi tempi, con il petrolio così basso, non sono rosei quanto gli Aliyev vorrebbero. Così hanno deciso di mettere pancia verso ovest, alla ricerca del consenso e del mercato europeo: l’unico modo per far fruttare i gioielli di famiglia.
Il piano è semplice: riempire l’Unione europea del gas che si trova a Shah Deniz, un giacimento di gas grosso come l’isola di Manhattan. Da lì parte il Corridoio meridionale del gas, che attraversa tutta la Turchia, la Grecia, l’Albania e arriva in Puglia, nelle incontaminate acque del Salento. E qui dal 2006 si lotta contro l’ultimo tratto del gasdotto, il Trans Adriatic Pipeline (Tap). I più accreditati per la realizzazione di questo tratto sono i costruttori della Saipem, controllata di Eni per il gas.
Perché il progetto nasca, Baku ha bisogno dei soldi europei. E di partner fidati che sponsorizzino il regime. Servono in tutto 45 miliardi di dollari per trasportare verso il mercato europeo circa 16 miliardi di metri cubi di gas l’anno (per saperne di più: Alla canna del gas, il report di Re:Common)
A garantire i quattrini ci pensano soprattutto i prestiti europei. Il 22 luglio si discuterà di 500 milioni di provenienza dalla Bers, la banca europea che finanzia progetti di sviluppo in Paesi dell’ex Unione sovietica.
Gli altri soldi si troveranno “sul mercato”: con project bond a cui le banche europee garantiranno rating migliori in modo che la vendita possa essere garantita. Il tutto perché nel Piano di sviluppo pensato dalla Commissione Juncker il progetto rientra in quelli strategici per il futuro dell’Europa. Questo nonostante i dati di Eurogas diano in diminuzione del 10% i consumi nell’Unione, in particolare perché i sette Paesi che da sempre consumano oltre l’80% del gas europeo (tra cui l’Italia) stanno differenziando il loro approvvigionamento energetico.
Baku per farsi bella ha anche organizzato i primi giochi olimpici europei, svoltisi tra il 12 e il 28 giugno. Dovevano essere una grande festa, un’occasione per la principali multinazionali impegnate sia nel primo che nel secondo investimento (British petroleum in testa, seguita dalla russa Lukoil) per scaldare i motori in vista dell’investimento futuro.
Invece il regime ha mostrato il volto feroce della repressione dei diritti umani: secondo le ong Bank Watch, Re:Common e Platform London, autrici del report Pipe dreams, sarebbero almeno 143 i prigionieri politici in Azerbaijan. Chiunque si esprima contro gli Aliyev, va dietro le sbarre. Così Ilham si è garantito la rielezione con le elezioni farsa del 2013.
Certamente non pensava a questa storia Matteo Renzi, quando l’8 luglio ha incontrato a Roma Aliyev per un brevissimo meeting (il succo era rimandato con le grandi aziende italiane proprio ad Expo). Anzi, i due sono ottimi amici, come ricorda Re:Common: “Noi compriamo da Baku il 17,1% dell’oro nero necessario per il nostro fabbisogno nazionale. Il petrolio arriva in buona parte dai giacimenti offshore di Azeri-Chirag-Guneshli (gli ultimi dati ufficiali azeri parlano di 7,33 miliardi di barili), che da solo conta per il 70% delle riserve di greggio e il 75% della produzione dell’Azerbaigian. Qualche altra cifra: l’Italia è il primo partner commerciale del paese, d momento che assorbe circa il 20% delle esportazioni azere.
L’interscambio commerciale tra i due paesi è fortemente influenzato dal peso delle importazioni di idrocarburi, che costituiscono oltre il 90% dei 5,4 miliardi di import dall’Azerbaijan nel 2014. Le esportazioni italiane verso il Paese sono state invece pari a circa 595 milioni di euro, costituite in gran parte da meccanica strumentale, mobili e moda. Le aziende più attive sono la Saipem e, in misura minore, Finmeccanica”. Per non farsi mancare nulla. Così, ad Expo, il presidente Aliyev può mettersi la sua medaglia al petto: “La nostra relazione è eccellente e l’Italia è partner numero uno del nostro Paese”.